Racconto di Paolo Parigi
Quando manca così poco al giro di boa restano solo
due possibilità: cercare di cristallizzare la vita nel presente, eternandolo,
dilatandolo all'infinito nel passato e nel futuro, rendendolo fulcro delle
esperienze fatte e da fare, punto di equilibrio, perno attorno al quale far
girare l'esistenza, oppure accettare con saggezza e spirito propositivo la
svolta che di lì a poco proietterà il tempo in una dimensione diversa, quella
del non ritorno. Trentanove non erano poi così tanti. Il problema era che annunciavano
i quaranta.
Quasi quattro decenni in cui era successo di tutto.
O niente, questione di punti di vista.
Quel sabato sera Alessandro stava
sorseggiando rum di prima qualità, invecchiato al punto giusto, ambrato,
sprofondato nel suo divano foderato di pelle lavorata “a pieno fiore”, la
migliore, la più pregiata. Chissà poi perché la chiamavano così: che c'entrava
il fiore con la pelle? Cosa poteva mettere in relazione la vitalistica
deflagrazione cromatica di un fiore con l'epidermide cadaverizzata di un
animale nato, vissuto e soppresso in nome dell'alto di gamma?
Di fiori
comunque in casa sua non ce n'erano. I suoi fiori, usava dire agli amici
abusando di una metafora scontata, erano le donne. Donne non conquistate, non
corteggiate né viziate.
Donne che
pagava per venirlo a trovare a casa. Niente a che vedere con "fotomodella
brasiliana cerca amici" o "massaggiatrice disponibile per
affettuosa amicizia".
Nulla a che fare nemmeno con foto sgranate in rete,
gallerie di more in pose procaci su pavimenti con piastrelle
fantasia. Tutt'altro: prostitute di lusso, che facevano capo a persone di
mondo, abituate a trattare con gente di livello, in piena riservatezza, alla
vecchia maniera, senza mettersi in vetrina sul web.
Con le donne a pagamento era più facile.
Specialmente in un momento della vita in cui intraprendere relazioni serie
cominciava a essere complicato.
Lui preparava l'atmosfera, con la musica
giusta, i millesimati, i sigari di marca, le fantasie. Loro si preparavano a
esaudire i suoi desideri. Niente di estremo, nulla che andasse oltre le
pratiche consuete. Solo, era fondamentale, orchestrato in modo estetizzante: ci
voleva l'abito giusto, l'intimo giusto, l'accessorio giusto. Benvenuta anche la
chirurgia plastica, forme perfette, cubofuturismo di carne.
Ognuna di
queste donne, a seconda delle serate, diventava una parte di quella che lui
avrebbe voluto fosse la sua compagna ideale, la persona che avesse in sé tutte
le diversità di cui poteva alimentarsi la sua smania di totalità, il suo
desiderio di riunire in un solo essere universi differenti in funzione di
un'entità perfetta, definitiva ma estemporanea. Questo perché, pensava, ogni
cosa, compreso ciò che nel momento in cui viene vissuto sembra avere in sé il
seme dell'eternità, si rivela fugace.
Dopo qualche anno anche l'immagine di una donna
amata alla follia e mai più vista comincia a farsi opaca. Dapprima si perde
qualche dettaglio dei lineamenti, poi si finisce per non riuscire più a mettere
a fuoco tratti caratteristici come la bocca e il naso.
Se
pensava a Elettra, non riusciva più a ricomporla in un insieme coerente. Al
massimo riusciva a riportarne alla memoria il colore degli occhi, i capelli,
non senza un certo sforzo la voce. Frammenti.
La loro ultima volta in compenso lo ricordava
perfettamente. Avevano diciassette anni. Lei il giorno successivo sarebbe
partita per andare a stare con la famiglia in un'altra città, lontana,
irraggiungibile nelle menti e nelle azioni degli adolescenti. Pur non riuscendo
a ricostruirne in modo definito il volto e il corpo, sentiva ancora i muscoli
delle sue gambe mordergli i fianchi.
Avevano deciso che la storia sarebbe finita quel
giorno, per non soffrire della reciproca lontananza. Dopo quel pomeriggio non
l'aveva mai più vista. Chissà dov'era. Qualcuno gli aveva detto che era
ritornata ad abitare lì in città, ma mai gli era capitato di incrociarla e
probabilmente sarebbe stata così diversa che anche incontrandola non l'avrebbe
riconosciuta. Come lei forse non avrebbe riconosciuto lui: la chioma bionda,
mossa, imperfetta, non liscia da bello di una volta, si era trasformata in un
cranio rasato, che lasciava scorgere sulla nuca alcune voglie violacee,
sgocciolate lì in malo modo da un Pollock inetto.
Riportò la mente al fatto che tra non molto sarebbe
arrivato un fiore profumato di nuove fantasie.
Azionò il lettore. Poche note e l'atmosfera si fece
perfetta, qualcosa tra lo struggente e il giocoso. Fece un respiro profondo e
spalancò la porta-finestra, lasciando che l'aria fredda di gennaio penetrasse,
tagliando il tepore.
Uscì sul terrazzo e guardò giù, verso la strada,
dall’alto dei suoi duecento metri quadri al dodicesimo piano. Strano, l'amica
per una sera che stava aspettando – "una delle mie migliori" gli aveva
assicurato Eveline – non era ancora arrivata. Di solito sentiva, puntuale, il
suono del citofono alle dieci precise.
Rientrò e si mise a gironzolare annoiato per l’open
space. Si ricordò che non si era lavato i denti.
Mentre riponeva lo spazzolino si guardò
attentamente il volto allo specchio: rughe di espressione che avevano
cominciato a solcargli la pelle almeno dieci anni prima. Sollevò la camicia
rossa e scoprì il torso. Adipe zero, vanità da quattro soldi.
Aveva appena acceso il televisore che suonò il
campanello.
Aprendo la porta restò quasi deluso. Statura,
zigomi, labbra: tutto troppo poco vistoso. Begli occhi però, azzurri, quasi
viola.
– Ciao.
– Ciao.
– Entra, accomodati.
Il suono promettente dei tacchi a spillo bianchi,
troppo bassi per i suo gusti, introdusse la frase successiva.
– Vuoi darmi il soprabito?
– Certo…
hai già caldo anche tu, vero? – gli disse lei lanciandogli un’occhiata
maliziosa di repertorio.
L’aiutò a sfilarselo. Facendolo le prese una mano e
quasi con noncuranza la sfiorò con le labbra, replicando per l'ennesima volta
il trito rituale che inscenava con tutte.
– Cosa
beviamo, Alessandro?
– Certo, il suo nome lo sapeva, Eveline l'aveva
istruita bene.
Gli
pareva di sentirla: "Trattate il cliente con una certa confidenza, ma
sempre con garbo,
mi
raccomando lo stile. Chiamatelo subito per nome, ma fatelo come se foste delle
amiche, delle
vecchie amiche. Questi bambinoni rincoglioniti vogliono divertirsi, ma
senza rinunciare
alla
forma”.
– Io mi chiamo Dharma, – continuò.
– È il
tuo vero nome? Ha qualcosa di…
– Di finto. Io lo odio, – lo interruppe.
– È stata
mia nonna, – proseguì.
– Ti andrebbe
un vero rum cubano? Ha un aroma stupendo, – tagliò corto lui.
–
“Stupendo” è uno strano aggettivo per un aroma, – rispose con tono leggermente
beffardo, sempre dandogli le spalle, continuando a guardare fuori dalla
finestra, verso un punto indeterminato.
– Potrebbe essere
definito pieno, ricco… ma stupendo è inadatto.
– Hai ragione, ma guardare te, che sei stupenda, mi
ha indotto a scegliere una parola sbagliata.
Dialoghi come si deve, pensò, ecco la differenza,
ecco perché era giusto pagare di più, ecco perché, era sacrosanto volere il
meglio.
Donne che fanno i master e poi decidono che è
meglio darsi per soldi. Se fosse stata russa sarebbe stata un ingegnere missilistico.
Nella nostra immaginazione laggiù sono tutti ingegneri missilistici o
scrittori. Gli venne in mente la prostituta del libretto di Dostoevskij,
miseria da giocare a redimere, tempi lontani.
– Ti parlavo del nome, – insistette lei.
– Certo, tua nonna, il nome.
–
Appunto, il nome Dharma lo ha quasi imposto mia nonna. Uno stupido nome hippy.
Tra l'altro non credo che dharma sia una parola femminile...
– E tuo padre non ha detto la sua?
– Non ho padre, non ho mai avuto un padre. È la
prima cosa che ho imparato a dire agli altri. A scuola, alle amiche che
venivano a casa nostra… mi hanno detto che la chiamava “la scema".
– La scema chi?
– Lei, mia nonna chiamava così mia madre. Perché
aveva avuto tenere il figlio.
– Tuo fratello?
– No, non
ho fratelli. Si riferiva a me. Una figlia che non serviva, per di più di un
padre che non si sapeva chi fosse.
– Be', conosco parecchie storie simili e...
Non fece caso al fatto di averlo interrotto,
continuò come se stesse parlando da sola.
– Anche
se una volta, mia zia, la sorella di mia madre, mi ha confessato, anche se è un
po' fuori, dicono, e s’inventa storie tutte sue, mi ha detto che lei sapeva chi
era mio padre e che non gli avevano detto niente, apposta, perché era lontano
ed era troppo giovane. Un padre inutile e una madre scema, così, mi
riferiscono, diceva mia nonna.
– Dharma,
non sono abituato a parlare di questioni intime con…
– Una puttana?
– Per me
questa sera sei un'amica speciale.
– No, sai
benissimo cosa sono. Sono qui per questo.
– Io so, io vedo, che sei una ragazza bellissima e...
– Mia madre dice che in alcune cose in cui sono
precisa a mio padre, cose che però non si vedono tanto... nonostante poi dica
subito dopo che non si ricorda neanche più come era fatto.
– Tua
madre, immagino, non sa che fai... cioè insomma che sei...
– Non lo sa quasi nessuno. E poi quello che faccio
riguarda solo me.
– Sì, certo, era così, tanto per parlare. Senti, ti
propongo di mollare questi discorsi e assaggiare questo rum dall'aroma ricco,
come diresti tu.
Dharma sfoggiò il suo miglior sorriso
professionale, gli prese di mano il bicchiere e, mettendogli delicatamente una
mano sulla spalla, lo guidò verso il divano.
Alessandro si sedette sulla parte angolare e prese
in mano il telecomando del lettore. Lei si accomodò accavallando le gambe
accanto a lui, sul lato corto dell'imbottito. Lo spazio si riempì da note
minimali e assolute.
– Ti
piace? – le chiese.
– Sì. È musica di una volta? Tipo roba che
ascoltava mia madre?
– Non
credo tua madre l'ascoltasse. Era già musica sorpassata quando io avevo la tua
età.
– Che ne sai della mia età?
– Venticinque?
– Ventidue.
– E io
quanti ne ho secondo te?
– Vediamo... quaranta forse?
– Togline uno.
Dharma si alzò dal divano. Cominciò a
sbottonarsi la camicia viola. Come gli occhi.
– Hai detto di toglierne uno, no? Un indumento
forse?
– Scaltra, niente da dire. Benissimo, vai,
continua.
Ancora il ricordo, di nuovo Elettra. Era la serata.
Affioravano memorie inabissate da oltre due decenni. Forse era l'odore di corpo
femminile liberatosi dalla pelle di Dharma che lo stava obbligando a ricordare.
Gesti
goffi quelli di lei quel pomeriggio in camera di lui, non quello dell'addio, un
altro. Maggio '82. In sottofondo un disco dei Roxy Music, scelto apposta, più
adatto alla situazione vissuta tra il cuore e il trasgressivo. Cose da
adolescenti. Belle perché sapevano di ormoni, avevano un odore forte. Non ci si
lavava in continuazione come ora, non c'erano trentamila bagnoschiuma con cui
mistificare il sesso. Dieci minuti prima sul piatto i Jam di Paul Weller.
Album “The gift”. Il dono. Suonano come promesse, minacce o verità i titoli dei
brani che ascoltano i poco più che bambini. Magia che cessa di colpo quando si
entra nel film della vita adulta, bello quanto vuoi, ma comunque in bianco e
nero. Poi però i Roxy, un trentatré che lei aveva rubato per lui in un negozio
del centro. Improbabile minigonna e scarpe bianche su cui camminava incerta.
Maglietta rosa come usava allora, presa a sua sorella Carla, quando ancora non
aveva cominciato anche lei a conciarsi come una santona, diceva. Testa bionda
vera e occhi azzurri. Quasi viola. Ma i lineamenti erano ancora offuscati, non
ricordava bene la bocca, le labbra. In compenso sentiva ancora il contatto con
la sua pelle, col corpo divorato sul letto cigolante senza problemi perché
tanto in casa non c'era nessuno, i genitori di lui erano fuori, al lavoro. Un
momento come tanti altri, ma vissuto in una fase della vita in cui il minuto è
ora, l'ora è giorno, il giorno è mese, il mese è anno, l'anno è eternità.
Ricordi.
Erano
queste le fantasie che questa ragazza a gettone gli avrebbe venduto quella
sera? Altre volte erano stati gli abiti, i gesti, gli accessori, gli
atteggiamenti a condurre il gioco. Che stavolta fossero i pensieri? Le parole
non recitate ma dette? Alessandro guardava Dharma. In piedi, accompagnava con
movimenti studiatamente lenti il repeat del brano che avevano appena ascoltato.
Occhi azzurri. Quasi viola.
I bicchieri mezzi pieni.
– Buono vero? – commentò Alessandro.
– Buono è un aggettivo adatto ma incompleto per un
rum come questo.
– Già, è vago. O assoluto, dipende dai punti di
vista.
Una
compagnia di livello, pensò ancora una volta soddisfatto; mentre lo faceva
spostò lo sguardo da lei a ciò che gli stava attorno: mobili minimal,
soprammobili etnici ma non vistosi, alle pareti litografie astratte di un certo
valore. Le grandi vetrate delle finestre gli regalavano il buio di un cielo
stellato invernale, proteggendolo a dovere dal freddo e dai rumori della città,
dal sabato notte ovvio e senza sorprese che viveva la maggior parte delle
persone.
– Parliamo ancora un po', che ne dici? – si lanciò,
entusiasta di questo nuovo fiore così ben coltivato.
– Prima beviamo, – propose lei continuando a
dondolarsi. Poi, assumendo di punto in bianco una postura esageratamente
eretta, guardando Alessandro dritto negli occhi disse: – Tutto?
– No, no.
Devi centellinarlo, assaporarlo. È come una donna, esige dei preliminari, vuole
essere capito prima di essere goduto.
Similitudini scontate, da periodici per
maschi in cerca di conferme.
– Io non provo piacere.
– Vuoi
dire che...
– Solo da
sola.
– Vieni a sederti.
Sul tavolino trasparente di fronte la bottiglia di
rum attendeva di riempire i bicchieri.
– Hai detto "da sola"?
– Sì.
– Perfetto, hai appena trovato il tema della
serata.
Povera testa di cazzo, pensò di se stesso mentre le
porgeva con atteggiamento ieratico un astuccio pieno di oggetti lucidi,
cromati.
Bevvero ancora.
Si
svegliò che era giorno fatto. Domenica, quel silenzio inerte rotto da qualche
lontano e pesante rintocco di bronzo voleva dire domenica. Aveva dormito tanto
o poco? Dal mal di testa sembrava poco. La bocca era impastata. Il letto era
ancora fatto e lui ci si trovava sopra, supino e vestito. Poi si ricordò.
Dharma. Sicuramente se n'era andata da ore.
Si alzò di scatto. Cercando di restare in
equilibrio entrò in bagno. Il mosaico a tessere rosse e blu scuro, luccicando
alla luce del giorno fatto rivelava tutta la sua vacuità. Essere un cesso non è
una colpa, è una funzione.
Socchiudendo gli occhi prese dal tubetto una ditata
di dentifricio e si mise a masticarla. Sciacquatala via andò verso la tazza e,
ancora con qualche difficoltà a stare dritto, prese la mira.
Poi un fruscio.
Proveniva dal soggiorno.
Non
si allarmò. Non era la prima volta.
Era rimasta lì.
Cominciava a ricordare.
Una
serata contemplativa. Trascorsa a guardarla. Due imitatori di una scena da
romanzo erotico per donne stufe. E alcol. Fino a stordirsi. Sotto, a
ripetizione, dolcemente ossessionanti, i Velvet Underground.
Si
trascinò barcollando in soggiorno. I passi cigolavano sul parquet scuro, un
puttanaio di euro a metro quadro.
Stava dormendo prona sul divano. Su di lei
una coperta. Chi gliela aveva data? Lui no. Si girò automaticamente verso
l'armadio a muro incassato nel corridoio; vide che un'anta era socchiusa. Se
l'era presa da sola, cercando nel posto più ovvio: non gli dispiaceva che si
fosse sentita un po' a casa.
Sul tavolino ancora le banconote. Grosse.
Considerando che era rimasta lì tutta la notte più tardi ne avrebbe aggiunte
altre.
Era bello guardarla dormire, ascoltare e odorare
quel respiro pesante, post-alcolico, senza maschere. Forse era proprio questa
l’intimità, forse era proprio questo quello che poteva fare di una donna la tua
donna. Ebbe un inatteso moto di affetto, di un genere che non provava mai in
situazioni del genere. Le si sedette accanto, dalla parte dei piedi. Gli venne
voglia di accarezzarla.
Portava al collo una catenina di metallo con appeso
un monile rotondo con raffigurato a rilievo un simbolo circolare, una specie di
ruota raggiata. La sera prima lo aveva notato appena. Era rivolto all'indietro,
a penzolare sulla schiena scoperta fino alle scapole. Si allungò su di lei e
prese in mano il pendente con delicatezza, per non rischiare di svegliarla. Lo
girò con cautela e scoprì sul rovescio una piccola scritta, incisa in corsivo
sul metallo, forse oro bianco. "Da zia Carla per i tuoi diciotto anni.
Vivi seguendo il tuo nome, Dharma". Gente un po' squinternata, pensò. Le
sollevò i capelli per baciarla sulla nuca.
Le vide. Vide quelle piccole voglie violacee.
Fece scorrere lo sguardo e incontrò il braccio sinistro, magro, che penzolava nudo
fuori dalla coperta: il tricipite era scolpito in modo leggermente ipertrofico.
Poi le guardò il viso e vide che la bocca, nel volto girato di profilo con la
guancia destra appoggiata al cuscino sul bracciolo del divano, lasciava
intravedere dei canini aguzzi.
Zia Carla. Invaghita anche lei di filosofie
orientali. La madre giovanissima. Ventidue anni. Occhi azzurri. Quasi viola.
Si alzò di scatto.
Restò immobile per qualche istante.
Corse in bagno. Si spogliò. Entrò in doccia, regolò
il miscelatore sul blu e lo spinse in su azionando il getto. Allungò le braccia
in modo da tendere i tricipiti e li guardò attentamente. Restò un po’ sotto
l’acqua gelida.
Uscito dal box, si sedette sull’asse del wc. Restò
lì un po', senza pensare a niente. Dal bordo inferiore dello specchio, sopra il
lavabo, affiorava la sua immagine riflessa. Aprì la bocca. Non è che i canini
fossero particolarmente aguzzi. Il dentista gli aveva detto che apparivano
aguzzi perché erano ruotati rispetto alla norma.
Si alzò e ritornò in soggiorno. Non barcollava più.
Aprì la
finestra, sentiva il bisogno di un'iniezione d’aria.
Si sedette di nuovo accanto a lei. Accese il
lettore. Selezionò il solito brano, lo stesso ascoltato decine di volte la sera
prima.
Sunday Morning riempì con la sua malinconia pop il
silenzio del soggiorno.
Early dawning
Sunday morning
It's just the wasted years
So close behind
Raccontavano la verità quelle parole.
Sono ancora ubriaco, pensò. Sto vaneggiando.
Poi eccole, sul tappeto rosso. Le scarpe di Dharma,
bianche. Leggermente sformate verso la punta, sui lati esterni. Vecchie. Le
aveva notate, appena era entrata. Lui notava tutto. Un po' vintage aveva
pensato.
Di Elettra non poteva certo ricordare i piedi,
tutt'al più avrebbe potuto dire che non erano grandi. Le scarpe però, chissà
perché, gli erano rimaste impresse. Forse perché lo divertiva il fatto che sui
tacchi barcollasse; senza poter immaginare che da grande avrebbe guardato a
quel difetto come si legge una poesia.
Ora erano lì. Le scarpe su cui si arrampicava
inesperta, leggermente sformate verso la punta, sui lati esterni, erano lì, sul
tappeto rosso.
Elettra. Il volto, a parte gli occhi azzurri, quasi
viola, non riusciva più a metterlo bene a fuoco.
Chissà cosa faceva ora. Magari aveva dei figli.
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