lunedì 9 novembre 2015

Occhi azzurri, quasi viola.

 Racconto di Paolo Parigi



Quando manca così poco al giro di boa restano solo due possibilità: cercare di cristallizzare la vita nel presente, eternandolo, dilatandolo all'infinito nel passato e nel futuro, rendendolo fulcro delle esperienze fatte e da fare, punto di equilibrio, perno attorno al quale far girare l'esistenza, oppure accettare con saggezza e spirito propositivo la svolta che di lì a poco proietterà il tempo in una dimensione diversa, quella del non ritorno. Trentanove non erano poi così tanti. Il problema era che annunciavano i quaranta.
Quasi quattro decenni in cui era successo di tutto. O niente, questione di punti di vista. 

Quel sabato sera Alessandro stava sorseggiando rum di prima qualità, invecchiato al punto giusto, ambrato, sprofondato nel suo divano foderato di pelle lavorata “a pieno fiore”, la migliore, la più pregiata. Chissà poi perché la chiamavano così: che c'entrava il fiore con la pelle? Cosa poteva mettere in relazione la vitalistica deflagrazione cromatica di un fiore con l'epidermide cadaverizzata di un animale nato, vissuto e soppresso in nome dell'alto di gamma?


Di fiori comunque in casa sua non ce n'erano. I suoi fiori, usava dire agli amici abusando di una metafora scontata, erano le donne. Donne non conquistate, non corteggiate né viziate. Donne che pagava per venirlo a trovare a casa. Niente a che vedere con "fotomodella brasiliana cerca amici" o "massaggiatrice  disponibile per affettuosa amicizia". Nulla a che fare nemmeno con foto sgranate in rete, gallerie di more in pose procaci su pavimenti con piastrelle fantasia. Tutt'altro: prostitute di lusso, che facevano capo a persone di mondo, abituate a trattare con gente di livello, in piena riservatezza, alla vecchia maniera, senza mettersi in vetrina sul web.
Con le donne a pagamento era più facile. Specialmente in un momento della vita in cui intraprendere relazioni serie cominciava a essere complicato. Lui preparava l'atmosfera, con la musica giusta, i millesimati, i sigari di marca, le fantasie. Loro si preparavano a esaudire i suoi desideri. Niente di estremo, nulla che andasse oltre le pratiche consuete. Solo, era fondamentale, orchestrato in modo estetizzante: ci voleva l'abito giusto, l'intimo giusto, l'accessorio giusto. Benvenuta anche la chirurgia plastica, forme perfette, cubofuturismo di carne. 

Ognuna di queste donne, a seconda delle serate, diventava una parte di quella che lui avrebbe voluto fosse la sua compagna ideale, la persona che avesse in sé tutte le diversità di cui poteva alimentarsi la sua smania di totalità, il suo desiderio di riunire in un solo essere universi differenti in funzione di un'entità perfetta, definitiva ma estemporanea. Questo perché, pensava, ogni cosa, compreso ciò che nel momento in cui viene vissuto sembra avere in sé il seme dell'eternità, si rivela fugace.
Dopo qualche anno anche l'immagine di una donna amata alla follia e mai più vista comincia a farsi opaca. Dapprima si perde qualche dettaglio dei lineamenti, poi si finisce per non riuscire più a mettere a fuoco tratti caratteristici come la bocca e il naso. 

Se pensava a Elettra, non riusciva più a ricomporla in un insieme coerente. Al massimo riusciva a riportarne alla memoria il colore degli occhi, i capelli, non senza un certo sforzo la voce. Frammenti. 
La loro ultima volta in compenso lo ricordava perfettamente. Avevano diciassette anni. Lei il giorno successivo sarebbe partita per andare a stare con la famiglia in un'altra città, lontana, irraggiungibile nelle menti e nelle azioni degli adolescenti. Pur non riuscendo a ricostruirne in modo definito il volto e il corpo, sentiva ancora i muscoli delle sue gambe mordergli i fianchi.  
Avevano deciso che la storia sarebbe finita quel giorno, per non soffrire della reciproca lontananza. Dopo quel pomeriggio non l'aveva mai più vista. Chissà dov'era. Qualcuno gli aveva detto che era ritornata ad abitare lì in città, ma mai gli era capitato di incrociarla e probabilmente sarebbe stata così diversa che anche incontrandola non l'avrebbe riconosciuta. Come lei forse non avrebbe riconosciuto lui: la chioma bionda, mossa, imperfetta, non liscia da bello di una volta, si era trasformata in un cranio rasato, che lasciava scorgere sulla nuca alcune voglie violacee, sgocciolate lì in malo modo da un Pollock inetto. 
Riportò la mente al fatto che tra non molto sarebbe arrivato un fiore profumato di nuove fantasie. 
Azionò il lettore. Poche note e l'atmosfera si fece perfetta, qualcosa tra lo struggente e il giocoso. Fece un respiro profondo e spalancò la porta-finestra, lasciando che l'aria fredda di gennaio penetrasse, tagliando il tepore. 
Uscì sul terrazzo e guardò giù, verso la strada, dall’alto dei suoi duecento metri quadri al dodicesimo piano. Strano, l'amica per una sera che stava aspettando – "una delle mie migliori" gli aveva assicurato Eveline – non era ancora arrivata. Di solito sentiva, puntuale, il suono del citofono alle dieci precise. Rientrò e si mise a gironzolare annoiato per l’open space. Si ricordò che non si era lavato i denti.
Mentre riponeva lo spazzolino si guardò attentamente il volto allo specchio: rughe di espressione che avevano cominciato a solcargli la pelle almeno dieci anni prima. Sollevò la camicia rossa e scoprì il torso. Adipe zero, vanità da quattro soldi. 


Aveva appena acceso il televisore che suonò il campanello.
Aprendo la porta restò quasi deluso. Statura, zigomi, labbra: tutto troppo poco vistoso. Begli occhi però, azzurri, quasi viola. 
– Ciao.
– Ciao.
– Entra, accomodati. 
Il suono promettente dei tacchi a spillo bianchi, troppo bassi per i suo gusti, introdusse la frase successiva.
– Vuoi darmi il soprabito?
– Certo… hai già caldo anche tu, vero? – gli disse lei lanciandogli un’occhiata maliziosa di repertorio.
L’aiutò a sfilarselo. Facendolo le prese una mano e quasi con noncuranza la sfiorò con le labbra, replicando per l'ennesima volta il trito rituale che inscenava con tutte.
– Cosa beviamo, Alessandro?
– Certo, il suo nome lo sapeva, Eveline l'aveva istruita bene. Gli pareva di sentirla: "Trattate il cliente con una certa confidenza, ma sempre con garbo, mi raccomando lo stile. Chiamatelo subito per nome, ma fatelo come se foste delle amiche, delle vecchie amiche. Questi bambinoni rincoglioniti vogliono divertirsi, ma senza rinunciare alla forma”.
– Io mi chiamo Dharma, – continuò.
– È il tuo vero nome? Ha qualcosa di…
– Di finto. Io lo odio, – lo interruppe.
– È stata mia nonna, – proseguì.
– Ti andrebbe un vero rum cubano? Ha un aroma stupendo, – tagliò corto lui.
– “Stupendo” è uno strano aggettivo per un aroma, – rispose con tono leggermente beffardo, sempre dandogli le spalle, continuando a guardare fuori dalla finestra, verso un punto indeterminato. 
  Potrebbe essere definito pieno, ricco… ma stupendo è inadatto. 
– Hai ragione, ma guardare te, che sei stupenda, mi ha indotto a scegliere una parola sbagliata.  
Dialoghi come si deve, pensò, ecco la differenza, ecco perché era giusto pagare di più, ecco perché, era sacrosanto volere il meglio.
Donne che fanno i master e poi decidono che è meglio darsi per soldi. Se fosse stata russa sarebbe stata un ingegnere missilistico. Nella nostra immaginazione laggiù sono tutti ingegneri missilistici o scrittori. Gli venne in mente la prostituta del libretto di Dostoevskij, miseria da giocare a redimere, tempi lontani.


– Ti parlavo del nome, – insistette lei.
– Certo, tua nonna, il nome.
– Appunto, il nome Dharma lo ha quasi imposto mia nonna. Uno stupido nome hippy. Tra l'altro non credo che dharma sia una parola femminile...
– E tuo padre non ha detto la sua?
– Non ho padre, non ho mai avuto un padre. È la prima cosa che ho imparato a dire agli altri. A scuola, alle amiche che venivano a casa nostra… mi hanno detto che la chiamava “la scema".
– La scema chi?
– Lei, mia nonna chiamava così mia madre. Perché aveva avuto tenere il figlio.
– Tuo fratello?
– No, non ho fratelli. Si riferiva a me. Una figlia che non serviva, per di più di un padre che non si sapeva chi fosse.
– Be', conosco parecchie storie simili e...
Non fece caso al fatto di averlo interrotto, continuò come se stesse parlando da sola.
– Anche se una volta, mia zia, la sorella di mia madre, mi ha confessato, anche se è un po' fuori, dicono, e s’inventa storie tutte sue, mi ha detto che lei sapeva chi era mio padre e che non gli avevano detto niente, apposta, perché era lontano ed era troppo giovane. Un padre inutile e una madre scema, così, mi riferiscono, diceva mia nonna.
– Dharma, non sono abituato a parlare di questioni intime con…
– Una puttana?
– Per me questa sera sei un'amica speciale.
– No, sai benissimo cosa sono. Sono qui per questo.
– Io so, io vedo, che sei una ragazza bellissima e...
– Mia madre dice che in alcune cose in cui sono precisa a mio padre, cose che però non si vedono tanto... nonostante poi dica subito dopo che non si ricorda neanche più come era fatto.
– Tua madre, immagino, non sa che fai... cioè insomma che sei...
– Non lo sa quasi nessuno. E poi quello che faccio riguarda solo me.
– Sì, certo, era così, tanto per parlare. Senti, ti propongo di mollare questi discorsi e assaggiare questo rum dall'aroma ricco, come diresti tu.
Dharma sfoggiò il suo miglior sorriso professionale, gli prese di mano il bicchiere e, mettendogli delicatamente una mano sulla spalla, lo guidò verso il divano. 
Alessandro si sedette sulla parte angolare e prese in mano il telecomando del lettore. Lei si accomodò accavallando le gambe accanto a lui, sul lato corto dell'imbottito. Lo spazio si riempì da note minimali e assolute.
– Ti piace? – le chiese.
– Sì. È musica di una volta? Tipo roba che ascoltava mia madre?
– Non credo tua madre l'ascoltasse. Era già musica sorpassata quando io avevo la tua età. 
– Che ne sai della mia età? 
– Venticinque?
– Ventidue. 
  E io quanti ne ho secondo te? 
– Vediamo... quaranta forse? 
– Togline uno. Dharma si alzò dal divano. Cominciò a sbottonarsi la camicia viola. Come gli occhi. 
– Hai detto di toglierne uno, no? Un indumento forse? 
– Scaltra, niente da dire. Benissimo, vai, continua.


Ancora il ricordo, di nuovo Elettra. Era la serata. Affioravano memorie inabissate da oltre due decenni. Forse era l'odore di corpo femminile liberatosi dalla pelle di Dharma che lo stava obbligando a ricordare. 

Gesti goffi quelli di lei quel pomeriggio in camera di lui, non quello dell'addio, un altro. Maggio '82. In sottofondo un disco dei Roxy Music, scelto apposta, più adatto alla situazione vissuta tra il cuore e il trasgressivo. Cose da adolescenti. Belle perché sapevano di ormoni, avevano un odore forte. Non ci si lavava in continuazione come ora, non c'erano trentamila bagnoschiuma con cui mistificare il sesso. Dieci minuti prima sul piatto i Jam di Paul Weller. Album “The gift”. Il dono. Suonano come promesse, minacce o verità i titoli dei brani che ascoltano i poco più che bambini. Magia che cessa di colpo quando si entra nel film della vita adulta, bello quanto vuoi, ma comunque in bianco e nero. Poi però i Roxy, un trentatré che lei aveva rubato per lui in un negozio del centro. Improbabile minigonna e scarpe bianche su cui camminava incerta. Maglietta rosa come usava allora, presa a sua sorella Carla, quando ancora non aveva cominciato anche lei a conciarsi come una santona, diceva. Testa bionda vera e occhi azzurri. Quasi viola. Ma i lineamenti erano ancora offuscati, non ricordava bene la bocca, le labbra. In compenso sentiva ancora il contatto con la sua pelle, col corpo divorato sul letto cigolante senza problemi perché tanto in casa non c'era nessuno, i genitori di lui erano fuori, al lavoro. Un momento come tanti altri, ma vissuto in una fase della vita in cui il minuto è ora, l'ora è giorno, il giorno è mese, il mese è anno, l'anno è eternità. 

Ricordi. Erano queste le fantasie che questa ragazza a gettone gli avrebbe venduto quella sera? Altre volte erano stati gli abiti, i gesti, gli accessori, gli atteggiamenti a condurre il gioco. Che stavolta fossero i pensieri? Le parole non recitate ma dette? Alessandro guardava Dharma. In piedi, accompagnava con movimenti studiatamente lenti il repeat del brano che avevano appena ascoltato. Occhi azzurri. Quasi viola.I bicchieri mezzi pieni. 
– Buono vero? – commentò Alessandro. 
– Buono è un aggettivo adatto ma incompleto per un rum come questo. 
– Già, è vago. O assoluto, dipende dai punti di vista.
Una compagnia di livello, pensò ancora una volta soddisfatto; mentre lo faceva spostò lo sguardo da lei a ciò che gli stava attorno: mobili minimal, soprammobili etnici ma non vistosi, alle pareti litografie astratte di un certo valore. Le grandi vetrate delle finestre gli regalavano il buio di un cielo stellato invernale, proteggendolo a dovere dal freddo e dai rumori della città, dal sabato notte ovvio e senza sorprese che viveva la maggior parte delle persone.  
– Parliamo ancora un po', che ne dici? – si lanciò, entusiasta di questo nuovo fiore così ben coltivato.  
– Prima beviamo, – propose lei continuando a dondolarsi. Poi, assumendo di punto in bianco una postura esageratamente eretta, guardando Alessandro dritto negli occhi disse: – Tutto?
– No, no. Devi centellinarlo, assaporarlo. È come una donna, esige dei preliminari, vuole essere capito prima di essere goduto.Similitudini scontate, da periodici per maschi in cerca di conferme.
– Io non provo piacere.
– Vuoi dire che...
– Solo da sola.
– Vieni a sederti.
Sul tavolino trasparente di fronte la bottiglia di rum attendeva di riempire i bicchieri.
– Hai detto "da sola"?
– Sì.
– Perfetto, hai appena trovato il tema della serata. 


Povera testa di cazzo, pensò di se stesso mentre le porgeva con atteggiamento ieratico un astuccio pieno di oggetti lucidi, cromati.
Bevvero ancora.



Si svegliò che era giorno fatto. Domenica, quel silenzio inerte rotto da qualche lontano e pesante rintocco di bronzo voleva dire domenica. Aveva dormito tanto o poco? Dal mal di testa sembrava poco. La bocca era impastata. Il letto era ancora fatto e lui ci si trovava sopra, supino e vestito. Poi si ricordò. Dharma. Sicuramente se n'era andata da ore. 
Si alzò di scatto. Cercando di restare in equilibrio entrò in bagno. Il mosaico a tessere rosse e blu scuro, luccicando alla luce del giorno fatto rivelava tutta la sua vacuità. Essere un cesso non è una colpa, è una funzione. 
Socchiudendo gli occhi prese dal tubetto una ditata di dentifricio e si mise a masticarla. Sciacquatala via andò verso la tazza e, ancora con qualche difficoltà a stare dritto, prese la mira. 
Poi un fruscio.
Proveniva dal soggiorno. 

Non si allarmò. Non era la prima volta.
Era rimasta lì.
Cominciava a ricordare. Una serata contemplativa. Trascorsa a guardarla. Due imitatori di una scena da romanzo erotico per donne stufe. E alcol. Fino a stordirsi. Sotto, a ripetizione, dolcemente ossessionanti, i Velvet Underground. Si trascinò barcollando in soggiorno. I passi cigolavano sul parquet scuro, un puttanaio di euro a metro quadro. Stava dormendo prona sul divano. Su di lei una coperta. Chi gliela aveva data? Lui no. Si girò automaticamente verso l'armadio a muro incassato nel corridoio; vide che un'anta era socchiusa. Se l'era presa da sola, cercando nel posto più ovvio: non gli dispiaceva che si fosse sentita un po' a casa. Sul tavolino ancora le banconote. Grosse. Considerando che era rimasta lì tutta la notte più tardi ne avrebbe aggiunte altre.


Era bello guardarla dormire, ascoltare e odorare quel respiro pesante, post-alcolico, senza maschere. Forse era proprio questa l’intimità, forse era proprio questo quello che poteva fare di una donna la tua donna. Ebbe un inatteso moto di affetto, di un genere che non provava mai in situazioni del genere. Le si sedette accanto, dalla parte dei piedi. Gli venne voglia di accarezzarla.
Portava al collo una catenina di metallo con appeso un monile rotondo con raffigurato a rilievo un simbolo circolare, una specie di ruota raggiata. La sera prima lo aveva notato appena. Era rivolto all'indietro, a penzolare sulla schiena scoperta fino alle scapole. Si allungò su di lei e prese in mano il pendente con delicatezza, per non rischiare di svegliarla. Lo girò con cautela e scoprì sul rovescio una piccola scritta, incisa in corsivo sul metallo, forse oro bianco. "Da zia Carla per i tuoi diciotto anni. Vivi seguendo il tuo nome, Dharma". Gente un po' squinternata, pensò. Le sollevò i capelli per baciarla sulla nuca. 

Le vide. Vide quelle piccole voglie violacee. Fece scorrere lo sguardo e incontrò il braccio sinistro, magro, che penzolava nudo fuori dalla coperta: il tricipite era scolpito in modo leggermente ipertrofico. Poi le guardò il viso e vide che la bocca, nel volto girato di profilo con la guancia destra appoggiata al cuscino sul bracciolo del divano, lasciava intravedere dei canini aguzzi.
Zia Carla. Invaghita anche lei di filosofie orientali. La madre giovanissima. Ventidue anni. Occhi azzurri. Quasi viola. 


Si alzò di scatto.
Restò immobile per qualche istante.  
Corse in bagno. Si spogliò. Entrò in doccia, regolò il miscelatore sul blu e lo spinse in su azionando il getto. Allungò le braccia in modo da tendere i tricipiti e li guardò attentamente. Restò un po’ sotto l’acqua gelida.
Uscito dal box, si sedette sull’asse del wc. Restò lì un po', senza pensare a niente. Dal bordo inferiore dello specchio, sopra il lavabo, affiorava la sua immagine riflessa. Aprì la bocca. Non è che i canini fossero particolarmente aguzzi. Il dentista gli aveva detto che apparivano aguzzi perché erano ruotati rispetto alla norma. 
Si alzò e ritornò in soggiorno. Non barcollava più. 

Aprì la finestra, sentiva il bisogno di un'iniezione d’aria.
Si sedette di nuovo accanto a lei. Accese il lettore. Selezionò il solito brano, lo stesso ascoltato decine di volte la sera prima.
Sunday Morning riempì con la sua malinconia pop il silenzio del soggiorno. 
Early dawning
Sunday morning
It's just the wasted years
So close behind
Raccontavano la verità quelle parole.
Sono ancora ubriaco, pensò. Sto vaneggiando. 
Poi eccole, sul tappeto rosso. Le scarpe di Dharma, bianche. Leggermente sformate verso la punta, sui lati esterni. Vecchie. Le aveva notate, appena era entrata. Lui notava tutto. Un po' vintage aveva pensato.
Di Elettra non poteva certo ricordare i piedi, tutt'al più avrebbe potuto dire che non erano grandi. Le scarpe però, chissà perché, gli erano rimaste impresse. Forse perché lo divertiva il fatto che sui tacchi barcollasse; senza poter immaginare che da grande avrebbe guardato a quel difetto come si legge una poesia. 
Ora erano lì. Le scarpe su cui si arrampicava inesperta, leggermente sformate verso la punta, sui lati esterni, erano lì, sul tappeto rosso.
Elettra. Il volto, a parte gli occhi azzurri, quasi viola, non riusciva più a metterlo bene a fuoco. 
Chissà cosa faceva ora. Magari aveva dei figli. 


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