Racconto di Paolo Parigi
Mani salde sul volante, posizione dieci e dieci, da
esame di guida. Lo sguardo fisso che buca il parabrezza, concentrato sul mio
scopo senza scopo. Ho imboccato l'autostrada poco fa senza sapere verso
dove. Prima di farlo ho azzerato il contachilometri. Un modo come un altro per
dirmi che devo ricominciare.
Non ho
effetti personali né abiti di ricambio. Pochi contanti, ma in compenso la
tessera bancomat, la banda magnetica della tranquillità. Mi piacerebbe avere
come unico obiettivo a breve termine quello di sputtanare quello che ci è
rimasto dentro.
Penetro il buio d'asfalto con andatura misurata,
lasciando che le luci di posizione posteriori delle auto mi traghettino da
qualche parte. Non ho fretta. Il tempo non c'è più.
Per qualche giorno voglio lasciarmi dietro tutto: È
una frase fatta. E suona come una battuta, perché è il tutto che ha già
lasciato me dietro di sé: ho perso il lavoro e la donna in un colpo solo.
È mercoledì. Mi piacerebbe fosse possibile restare
così, nel bel mezzo della settimana, senza dover affrontare il mio primo
week-end senza donna e il mio primo lunedì senza lavoro. Poter fermare il tempo
in questa dimensione di andata senza meta. Né meta come luogo né meta come
scopo. Non ho più punti di arrivo perché non ho più punti di partenza. Vorrei
poter eternare questo mercoledì sera, scavare una solida nicchia
spazio-temporale in cui rifugiarmi.
Questa mattina il mio avvenire immediato prevedeva
che verso sera sarei ritornato a casa e come sempre avrei parlato con Giovanna
della giornata lavorativa. Nel giro di poco però è cambiato tutto. Il lavoro è
sparito, lei anche. Per dirmi è finita mi ha dato appuntamento in un bar.
Pensavo fosse per un aperitivo. Lo facciamo spesso. Facevamo. Mi ero preparato
a dirle del lavoro perduto. Mi ero riproposto di farlo senza toni vittimistici.
Se sei troppo poco alfa la femmina dopo un po' se ne accorge e ti scarta. La
specie è selezione. Alla fine non l'ho proprio fatto. Il suo verdetto mi ha
fatto dimenticare la questione del pane quotidiano.
Ho urlato parecchio. Il male della ferita affettiva
questa volta non l'ho sopportato in silenzio. Devono ancora inventarla
l'anestesia per quel tipo di amputazione. Uscendo ho incrociato sguardi
imbarazzati.
Fatico a pensare di dover intraprendere un'altra
volta un percorso in salita. Sono abbonato alle rottamazioni sentimentali.
Questa volta vorrei una strada piana e silenziosa come questo nastro scuro
diviso dalla riga bianca.
Vorrei
poter rimanere in equilibrio come il mercoledì, seduto comodo al centro della
fila di sette sedie della settimana.
Mi piace questa storia del mercoledì. I tedeschi
pragmatici lo chiamano Mittwoch a indicare che se ne sta nel mezzo della
settimana. Hanno sostituito il tuono di Odino con una parola piatta e
funzionale. Gli antichi romani lo battezzarono giorno di Mercurio, forse
pensando che Mercurio, messaggero degli dei, figura di tramite per eccellenza,
potesse svolgere meglio di un Giove, di un Marte o di una Venere il ruolo di
mediatore tra l'inizio e la fine della settimana. Non male questa pensata;
tutta roba mia. Chissà se l’ha già avuta qualcun altro. Coglione che sono.
Fra non molto sarà giovedì, già troppo per me.
Sento arrivare un'ondata di sconforto rispetto alla quale io sono la sabbia che
la riceve assorbendone l'acqua schiumante di rabbia. Provo uno scoraggiamento
che non combatto, cui cerco comunque di conformarmi, provando a immaginarmi
imbuto in cui debbano confluire i mali che affliggono persone che conosco bene
e conosco meno, l'ineluttabilità del fatto che certi affetti prima o poi
andranno a riposare al freddo della pietra, l'insensatezza della caducità, il
dolore, il dispiacere, la sofferenza. Mi penso imbuto pronto a ricevere e
convogliare in una sorta di auto-punizione tutto ciò che non mi piace. Mi penso
così. Ma forse è solo l'effetto del buio.
Mi sfilano accanto vigne e campi coltivati. Riesco
a percepirli nell’oscurità solo perché a tratti ricevono luce dai lampioni che
accecano i piazzali davanti ai capannoni. Mi hanno sempre fatto tristezza quegli
edifici; e non perché dentro si lavora, ma per la loro ortogonalità ottusa. Forse
me la sto prendendo con loro solo perché in questo momento sono fuori dai
giochi.
Non voglio arrivare, desidero solo andare. Non m’interessa
il dove, perché non provo più interesse né per il cosa né per il come. Solo
così potrò lasciare da parte il chi, l'io, il me stesso da cui intendo
estraniarmi, astraendomi e concentrandomi su quel poco che rimane di questo
mercoledì, trasformando il tempo a venire in un mercoledì eterno, facendo in
modo che il tempo, oltre a personificarsi in Aion, Chronos, Kairos e tutto il
resto che mi piace sfoggiare, vada a coincidere con il concetto di “mercoledì”,
dequalificandosi fino a identificarsi con un elementare bisogno di protezione. Mi
è sempre piaciuto elucubrare.
356,4 km dopo
È ancora mercoledì. Alla fine non ho fatto tutta la
strada che mi ero ripromesso di fare, mi sono fermato prima, tanto un posto
vale l’altro. Sono soddisfatto di trovarmi ora in un luogo di passaggio, uno
spazio di sosta lungo un percorso, un'espressione topografica che sta tra la
partenza e l'arrivo, un po’ come il mercoledì nella settimana. Più ci penso e
più me ne convinco: vorrei che restasse sempre mercoledì. È un desiderio che tuttavia
non può essere esaudito. Fra non molto sarà giovedì e allora mio malgrado dovrò
muovermi, dovrò incamminarmi verso la domenica, la peggiore di tutti, il giorno
più insopportabile per qualunque individuo si trovi in uno stato d’infelicità.
Credo che almeno per un po’ mi autorecluderò in
questo albergo accanto all'autostrada. Sono qui da mezz’ora. Dalla finestra si
vede una stazione di servizio. La vita degli sconosciuti che va e viene.
Accendo il televisore. È appoggiato sul frigo bar,
dal quale mi guarderò bene dal prendere qualsiasi cosa perché ora che sono un
disoccupato devo risparmiare su tutto ciò che è superfluo. Vorrei essere
diverso, prendere le arachidi e il bitter, e magari farmi portare in camera
anche una bottiglia di qualcosa, ma non lo farò perché su di me il comandamento
a rinunciare al “di più” ha sempre avuto la meglio. Coglione che sono.
Ci metto poco a trovare l’emittente musicale. La
solita. All’inizio non capisco di chi sia il brano in onda, ma poi riconosco la
cantante, che trovo cambiata rispetto a come si presentava qualche tempo fa.
Ora è una bambolina di carne ribelle ben costruita, perfetta per le melodie
taglienti e ben confezionate dei suoi brani. A non farmi cambiare canale non
sono tuttavia i suoi begli occhi pesti di rimmel – mi urta sapere i nomi di
queste cose da donne – né la sua vita sottile e nervosa, ma l’impasto, magico,
tra il respiro elettrico delle chitarre, il pulsare instancabile della batteria
e la carne del basso, una pozione che da trent’anni non smette di compiere su
di me il suo incantesimo.
Non do retta a chi è pronto a dirmi che sì, ok,
questa alla fin fine è musica pop, è commerciale, è merda e via discorrendo. In
questo momento la sto ascoltando e schifo non mi fa; io posso permettermi anche
questo, vorrei dire al mio immaginario sinedrio, alla mia commissione mentale
di difensori di non so quale ortodossia musicale, io posso permettermi di farmi
piacere anche questo perché, grazie ad alcuni amici più grandi di me, caduti
sulla terra da Marte, ho potuto inventare voi, perché io ascoltavo e sudavo i
Ramones e i Sex Pistols quando voi non avevate abbastanza adrenalina e
anticonformismo per farlo, perché io ho vi ho fatto conoscere i Clash, tromboni
quanto basta per piacere anche a voi, quando ancora vi masturbavate seriosi,
non seri, con le cantautorate, perché io quando avrò spento qui potrei passare
ad ascoltare Big swifty di Frank Zappa, e mi piacerebbe uguale, magari
più con la mente che con il corpo, e quella suite anno 1972 la conterei tutta,
"conterei", non "canterei", conterei tutti i suoi obbligati
di fronte alla vostra incredulità. Io, io, io. Coglione egoriferito che sono.
A non farmi cambiare canale in verità è altro.
Adesso la prospettiva di poterla avere, che
comunque era già remota data l'età di Giovanna, si fa ancora più lontana. Di
poterla mettere al mondo. Qui, in questo momento, non mi vergogno a figurarmela
così, con una Gibson SG “Diavoletto” a tracolla e le All Star ai piedi, pronta
a chiedere al suo papà come si suona questo o quel brano, mentre la sua mamma
guarda il quadretto con serena accondiscendenza. Immagini di zucchero filato: i
più evoluti riderebbero di me.
Zapping.
Trovo un altro canale musicale. Niente ragazzine con chitarre, ma braghe
cadenti nere di rabbia. Marketing del ghetto. Occhiali scuri, berretti col
frontino piatto, cappucci. Mi piacerebbe capire cosa rimano. Qui da noi lo
capiranno in pochi. Pochissimi tra quelli si scambiano sms con altri
telespettatori del programma per vederseli immortalati sulla fascia alla base
dello schermo mentre sfilano i videoclip .
Nina 85, Cucciolo 90, Rapsta 87, Giuly girl, Thomas
C, Filippo di Caserta, Suzy di Padova. Si firmano o danno il proprio nickname.
Si amano o vogliono rivedersi dopo essersi incontrati una volta, supplicano chi
li ha lasciati di ritornare, esternano disagi, dichiarano solitudine, cercano
amore, filosofeggiano, si disperano, gioiscono. “Vorrei conoscerti Kevin xché
mi piaci. Lita 89”, “Nikki, sei figo, ho visto il tuo mms. kiss, Kika 92”,
“Ciao raga, sono innamorata da morire. Bacio by Destiny”, “Saluti da Salerno,
Miky 90”. Quasi tutti pregano la regia di mandare il proprio messaggio,
"mandalo ti prego", perché evidentemente non è possibile tecnicamente
metterli tutti in sovrimpressione, presumo per ragioni fisiche, materiali, di
spazio a disposizione.
Io me ne sto qui a leggerli. Se quando avevo la
loro età ci fosse stata la possibilità di buttare dentro il tubo catodico
qualche parola scritta, lo avrei fatto anch'io.
È quando leggo quel messaggio che decido di farlo.
“Un giorno la felicità arriverà anche per me. Mandalo ti prego. Una quarantenne
infelice”. Il testo dell'sms, rimasto in sovrimpressione per pochi secondi,
recitava così. Una quarantenne in mezzo ad adolescenti o appena ventenni.
Infelice. Non in modo drammatico e passeggero come può accadere a ragazze e
ragazzi, ma senza squarci nelle nubi come può succedere solo a chi ha fatto il
giro di boa.
M’incuriosisce. Quasi mi piace che una coetanea
abbia avuto la mia stessa idea. Manderò al numero in sovrimpressione un sms
anch’io e mi firmerò “Un quarantenne infelice”, che non è un bugia.
Inviato.
Non mi resta che rimanere a guardare, attentamente,
concentrandomi, perché le parole passano sullo schermo rapidissime, non
ammettono che ci si distragga.
Arriva un sms sul mio telefono e subito mi
dimentico di quello che sto facendo. Mi sento già un idiota. Spero sia lei,
Giovanna.
No. La delusione mi decapita il respiro. È
l’emittente che m’informa di aver ricevuto il messaggio dicendomi che dandomi
un nickname sarò automaticamente registrato.
Ho distolto l’attenzione dal televisore anche
troppo. Riprendo a fissarlo focalizzando lo sguardo sulla fascia in basso, che
appare, scompare e ricompare secondo una logica che non riesco ad afferrare,
pronto a catturare il mio patetico S.O.S, ma sotto sotto rassegnato al fatto
che non verrà mandato.
E invece sì.
Quando arriva mi sembra di leggere parole scritte
da un altro. “E se oggi fosse il tuo giorno fortunato? Un quarantenne più
infelice di te”.
Guardo e aspetto. Resto concentrato sulla
fascia.
Arrivato. Lo riconosco subito: “È un giorno
fortunato perché ho incontrato te. A domani. Una quarantenne un po’ meno
infelice”.
Rivedo azzurro. So che durerà poco, ore, minuti
forse. Una promessa per domani però è già un regalo. Dovrò informarmi sulla
programmazione. O semplicemente aspettare con l’apparecchio acceso.
È giovedì. Da pochissimo. Me lo dicono i cristalli
liquidi senza che glielo abbia chiesto. Non voglio più sapere che ora è.
È al mattino che i problemi arrivano freschi di
virus, facendoti risvegliare infetto di angoscia, la stessa che la sera prima
ti sembrava di essere riuscito a spurgare. Giovanna e il lavoro bussano alla
porta della mia camera d'albergo strappandomi al sonno. A entrambi non
servo più.
"La sua posizione qui non è più
indispensabile, crediamo sia onesto dirle che le risorse che ora destiniamo a
lei debbano essere impiegate su un altro fronte". Niente da dire, non ho
potuto fare altro che accettare la decisione. Andate a farvelo mettere nel culo.
"Non stiamo andando nella direzione giusta,
tra noi in questi ultimi tempi si sono create sempre più incomprensioni. Non te
l'ho detto prima, ma sto già cominciando a portare via la mia roba da casa...
andrò a stare per un po’ da mia sorella. Anche per questo ho voluto che ci
vedessimo qui, in questo bar, un posto neutro, per non rendere la cosa ancora
più penosa. I nostri desideri non sono più in sintonia, è meglio se chiudiamo
qui. Abbiamo già imboccato strade diverse, solo che non ce ne siamo accorti".
Il giovedì comincia così.
Il televideo funziona: sono riuscito a conoscere la
programmazione dell'emittente.
Eccomi, ore diciannove spaccate. Le lancette hanno
riacquistato un senso. Sono in posizione, sdraiato sul letto a due piazze col
telecomando a destra e il cellulare a sinistra, mentre fuori le automobili, gli
autocarri, le moto e tutto il resto corrono verso i perché che io non ho più.
Dal risveglio a ora mi sono concesso il lusso di non fare nulla di preciso e di
pensare a un po' di tutto. Ho anche fatto un centinaio di flessioni: percorrevo
di norma almeno cinque chilometri a piedi al giorno, qualcosa devo inventarmi
per innescare di nuovo la percezione del corpo.
Sono pronto.
La band che sta schitarrando dietro i primi sms
potrebbe fare meglio. Comunque è sulle voci che molti di questi gruppi cedono,
perché cantano da boy band. Ma soprattutto hanno facce da boy band. Sono troppo
belli. Dove sono finiti i soma scimmieschi degli Stones, i lineamenti
squinternati degli Who, il manichino rachitico di Joey Ramone? Il rock'n'roll
diffida dei belli, forse. Presley, il re, è un caso a parte. Se un tizio sul
palco è troppo bello io inizio a sospettare di lui. Denti troppo regolari,
nasini all'insù. Datemi facce come dico io.
Poi arriva. Subito dopo un: "Peace 2all. Manu
di Rieti", si materializza il suo messaggio: "So che ci sei
quarantenne ancora più infelice. Tua F.". Con tanto di nickname:
“F.”.
Ci sono "F puntato", ci sono e ti messaggio
subito: "Il tuo quarantenne oggi è un po' meno infelice grazie a te.
Resto sdraiato, non mi scompongo sperando di
favorire con l'immobilità la pubblicazione del mio sms. Coglione che sono.
Azzero il volume. Sta iniziando una canzone anni 80
con un odioso video a fumetti. Gli anni dei revival in tv, la brutta triade
84-85-86 delle canzoni di plastica e gommina. Tutt'altra cosa gli 80
precedenti, officina di suoni mai sentiti prima, anni che voglio restino solo
miei e dei pochi iniziati con i quali mi illudo di avere condiviso esperienze
uniche. L'allegria comandata delle televisioni col sorriso incorporato mi
faceva malinconia già allora, tanto quanto i politicanti delle assemblee
scolastiche di pochi anni prima. Mi sento spaesato in troppi posti, è un mio
problema.
Continuo a fissare la fascia, incerto se mandare un
altro sms o meno.
Mi anticipa lei: "A domani, stessa ora. Datti
un nome, gentile quarantenne F.".
Le diciotto e cinquantotto, sono già sul pezzo. Le
ore contano di nuovo. Sono sdraiato sul letto, esattamente come ieri. Sono
pronto anche a darmi un nome. Voglio giocare la carta dell'ironia. In risposta
al suo "F." mi firmerò "P puntato", per esteso.
Questa volta voglio cominciare io. Mando
all’emittente un sms con il mio nickname. Scrivo “Nick: P puntato” e invio. Poi
digito: “Il mio nome è P puntato cara F puntato. Punto a te”. Invio. Mi sto
autocompiacendo. Coglione che sono.
“Punti su un cavallo perdente. Ho perduto anche il
mio uomo. Tua F.".
Ho già le dita sulla tastiera: “Forse il tuo uomo
lo stai conoscendo ora. Anch’io ho perso la mia donna".
È arrivato il sabato. Non manca molto al momento in
cui se ne andrà anche lui.
Ho fatto le solite cose. Ho ammazzato la maggior
parte del tempo in camera. Da quando sono qui il disagio è direttamente
proporzionale alla luce. È acuto al mattino, totale a ora di pranzo, faticoso
al pomeriggio, alleggerito nel tardo pomeriggio e sopportabile la sera. Poi
riprecipita: passo la notte tra il dormiveglia e la tv, fino a che non
sprofondo in un sonno pieno di sensi di colpa che dura poco.
Bene, sono in posizione, sdraiato, il cellulare
nella destra. Il brano che sta uscendo dal televisore spacca sempre: i Red Hot
Chili Peppers in quell'album hanno dato il meglio. Il video è geniale, quattro
folli dipinti di argento, immagini solarizzate. Chi mi colpisce rispetto al
presente è il chitarrista. All'epoca un fulminato pelle, ossa e muscoli
essenziali, ora un post-mistico appesantito che indossa camicie di flanella. In
un'intervista, tempo fa, l'ho sentito vaneggiare su Leonardo Da Vinci, Ozzy
Osbourne e David Bowie. Bello averli messi insieme così, senza ossequio ad
alcun paradigma. Non escludo sia capitato anche a me di farmi un brano dei
Black Sabbath e subito dopo sfogliare un articolo sul Cenacolo di Leonardo,
passando poi mezz'ora dopo ad ascoltare Low di Bowie in vinile. Potrei
benissimo averlo fatto, anzi, spero proprio di averlo fatto.
Attendo. "F puntato" mi ha dato
appuntamento. Mi fido di lei.
Eccolo: "L'ho lasciato io e già me ne pento. F.".
Sono già sui tasti: "Né pianti né rimpianti,
perché non la pianti e mi dici qualcosa di te? Tuo P puntato”.
Quando vedo apparire il mio sms sulla fascia mi
rendo conto che non è altro che il tentativo di fare il simpatico giocando con
le parole. Qualche minuto dopo, accompagnato dalle immagini di una boy band
riunitasi dopo dieci anni, appesantita e plastificata, leggo la sua risposta e
mi rendo conto che il tentativo di sdrammatizzare è abortito: “Niente figli.
L’ho lasciato per quello. F.”.
Cercavo la complicità e ho trovato la confidenza.
Meglio che niente.
“Volevo dei figli e invece sono stato mollato. P
puntato”.
Nonostante me ne resti in posizione e con lo
sguardo fisso sulla fascia fino al termine alla trasmissione, il mio sms non lo
vedo. Dovrò attendere lunedì, assediato dal pensiero che lei creda che io non
abbia voluto continuare la conversazione da pollice.
La domenica è quasi finita. Ed è arrivata la
consapevolezza che il peggio se n'è andato, se non altro il peggio della prima
fase del peggio. Seguiranno altre fasi, ciascuna con il proprio colore e il
proprio umore, ciascuna con un apice, ciascuna con una salita e una discesa. La
domenica è stata esattamente come gli altri giorni. A parte il palinsesto
televisivo, che non prevedeva la mia trasmissione. La domenica non fa così schifo
quando sai che sta per andarsene.
Lunedì, ore diciannove, nulla è cambiato. Sguardo
fisso sullo schermo e mano armata di cellulare. Non so con quali parole
"F puntato" potrà esordire, visto che il mio ultimo sms non è stato
mandato sulla fascia. Attendo. La fascia appare e scompare ogni tre o quattro
minuti.
Aspetto, ostinato, concentrato. Finalmente arriva:
“Subisci o ti auto-punisci amico P puntato? F.”.
Non c’è dubbio, il contenuto del messaggio è coerente
con l’ultimo inviato da me sabato. Quello che non ho visto, che mi è sfuggito.
Una mia distrazione, l'attenzione alla deriva nella bonaccia plumbea di questo
mercoledì eterno.
“Forse mi punisco perché so che alla fine è sempre
colpa mia gentile F puntato. P puntato”.
Brutta cosa l’autocommiserazione.
Dopo un paio di video da classifica e tante parole
da zainetto ritorna: “L'ho lasciato perché non stavamo andando da nessuna
parte. F.”.
Anch’io avrei voluto proiettare la mia relazione
con Giovanna verso una genesi. Invece è finita in una penosa apocalisse da bar.
Il pensiero corre alla ragazza con la Gibson “Diavoletto”e le All Star. Vorrei
che trasmettessero il suo video adesso.
Se fosse veramente il giorno di Marte, o di Tyr per
quelli che vivono al freddo e danno lezioni, sarebbe stata una guerra, ma già
dalle prime ore del mattino il martedì si è dimostrato pacifico. Questa notte
ho dormito.
Arrivano le diciannove. E poco dopo il suo sms
sullo schermo: “Come è andata veramente? Perché lei ti ha lasciato? F.”.
Io: “Mi ha detto che stavamo facendo percorsi
diversi. P puntato”.
Lei: “A lui ho detto le stesse cose. Non ti
piacerei. Lo rivoglio. Voglio che ritorni perché se n’è andato. Ciao P puntato.
F.”.
Con me non gioca più. Mi ha salutato. Mi ha
licenziato dal televisore. Mi ero già affezionato. Mi affeziono quasi subito
alle persone.
Dopo cena salderò il conto con il pezzo di plastica
che mi para il culo. E domani via, ripercorrerò all’inverso la rotta che mi ha
fatto approdare qui: lo dico a me stesso proprio così, usando un giro di
parole, perché il termine casa stride col mio stato d'animo. Coglione che sono.
È finito il mercoledì eternato, è arrivato di nuovo
quello vero. Ora di ritornare. Ho azzerato ancora il contachilometri. Anche
questo viaggio a ritroso è un nuovo inizio. Non ci metterò poco. So che farò
delle soste, sebbene non ce ne sarebbe bisogno. Perderò tempo. Prenderò tempo.
Autogrill come boe su un mare scuro, freddo.
356,4 km dopo
È sera. Sotto i piedi lo zerbino di casa. A mezzaluna,
per sentirmi diverso dagli altri condòmini che ce l'hanno rettangolare.
Coglione che sono.
Infilo la chiave nella toppa.
Un solo giro e scatta la serratura. Impossibile.
Giovanna è coscienziosa. Se ha chiuso con una sola mandata è perché aveva fretta,
tanta, tanta fretta di sparire.
Apro. L'odore mi assale, carico di ricordi che
dovrò sostituire con la puzza della solitudine.
Mi aspettavo il buio, invece mi accoglie una luce
fioca.
Il riverbero giallo di un lampione penetra dalla
porta-finestra del soggiorno. È spalancata.
Mi fermo.
I suoni che sento non provengono dell'appartamento
accanto, ma dalla camera da letto.
Accendo la luce.
Indugio ancora qualche secondo.
Sì, in casa c’è Giovanna.
Si è chiusa dentro, come fa sempre quando è sola.
Da sua sorella non è più andata.
Vado verso la camera. La musica viene dal
televisore. Ora la percepisco chiaramente: è la ragazza con la Gibson
“Diavoletto”. Una coincidenza. O forse solo statistica visto che la sua canzone
è in classifica.
Non mi ha sentito. Magari è in bagno. Le donne
trascorrono la vita davanti allo specchio del bagno.
Mi fermo di nuovo. Non so se ho voglia di
rivederla.
Mi affaccio alla camera.
Dorme. I capelli neri con qualche spruzzo di
grigio.
Lei scura, io chiaro. Quelle puttanate sui diversi
che si attraggono. Ma forse sono gli opposti.
Ho letto che il biondismo ha avuto origine come
anomalia genetica circa diecimila anni fa. Tra quelli che si giocavano la
sopravvivenza con le frecce di selce probabilmente sarei stato discriminato. La
cosa mi gonfia di autocompiacimento. Coglione che sono.
Dalle sue labbra affiora il ritmo quasi
impercettibile del respiro.
Sul comodino alla sua sinistra c'è il
telecomando.
Il cellulare è ancora sul palmo della mano, come se
fino a prima di scivolare nel sonno lo avesse tenuto fra le dita.
Si è addormentata davanti a mtv.
No, è un'altra emittente, me ne rendo conto quando
sulla parte bassa dello schermo appare una fascia, quella fascia.
Giusto, al mercoledì la trasmissione va in onda
alle undici di sera.
Faccio piano, non voglio svegliarla.
Nel sonno non sembra una persona infelice.
Più tardi forse glielo dirò. O magari le invierò un
sms: "Da P puntato: a guardarti mentre dormi non sembreresti così infelice
F puntato". F come Farfalla. All'inizio la chiamavo così. Una
farfalla nera in sogno, le dicevo, citando il testo di una canzone.
Mi sdraio accanto a lei. La parole sulla fascia non
mi interessano più. Desidero solo il mezzo minuto che resta del video.
Voglio iniettarmi nelle pupille ogni singolo fotogramma della nostra
figlia immaginaria, di lei che canta e suona imbracciando la sua Gibson SG
"Diavoletto" cherry red con le All Star ai piedi. Non voglio
altro.
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