mercoledì 16 luglio 2014

Il bambino del giovedì

Racconto di Paolo Parigi


Giovedì 9 novembre 1982
L'uomo che vorrei esiste. Tu lo sai. È elegante, riservato, in ordine. Ha gli occhi neri. Oggi era seduto davanti a me. L’avevo guardato a lungo giovedì scorso. Osservo molto le persone durante i miei viaggi quotidiani in treno. Lo faccio senza che se ne accorgano. Lo sto dicendo per la prima volta a te diario. Chissà se anche lui ha fatto come me, se mi ha guardato facendo in modo che io non lo scoprissi. 
Lo incontrava all'andata. Quel treno lui lo prendeva una volta la settimana, di giovedì, sempre alla stessa ora. Saliva alla prima fermata. Era il suo aspetto, sì, il suo aspetto, ad attirarla.

Giovedì 30 novembre 1982
È il quarto giovedì che lo incontro. L'ho guardato bene. Porta sempre abiti eleganti. Ha i capelli folti, neri. Da uomo che mantiene ciò che promette. Sì, diario, non intendo riaprire la questione; di promesse infrante ti ho parlato ormai troppe volte. Voglio però dirti una cosa: ci sono dettagli che rivelano il modo di essere di una persona. Di lui, di quest'uomo che vedo in treno, credo di sapere già molto grazie ai particolari. Parlo di come si veste. A un'altra magari darebbe fastidio il fatto che indossa sempre le stesse cose. A me no. Significa che sa cosa vuole. Su queste cose io non sbaglio mai. 
Ormai aveva capito molto di lui. Per esempio che indossava sempre le stesse tre paia di calzoni. Che preferiva le camicie scure e gli abiti con la giacca a due bottoni. Credeva di aver capito anche molto altro. Pensava di avere un sesto senso per i destini luminosi. 

Giovedì, 7 dicembre 1982
Mi piace stare seduta vicino a lui. Non credo si sia ancora accorto che lo osservo. Appena alza lo sguardo, faccio finta di niente. Quando è seduto davanti a me, per non rischiare di farmi scoprire, punto la sua immagine riflessa sul finestrino. Funziona. Crede che io stia guardando fuori. Oggi è successa una cosa bella. Per me almeno. Ha rivolto gli occhi verso l’esterno anche lui ed e le nostre immagini riflesse si sono imbattute l’una nell’altra; le nostre pupille si sono toccate. Sono sicura che per un momento mi abbia fissata. Mi è parso di arrossire, ma se anche fosse stato, non si è notato: un'immagine restituita da un vetro non può far trapelare le emozioni ma può dire molte cose, coglie la persona nella sua verità. Io penso di essere spontanea. Qui e ora, diario, sto scrivendo quello che provo con sincerità, credimi, ma lo sai, perché non ti ho mai mentito.
Capitava un po' per caso e un po' no che si trovassero sempre vicini. Anche l'uno di fronte all'altra, oppure l'uno accanto a un finestrino e l'altra accanto a quello speculare, sul lato opposto della vettura, comunque in modo da potersi osservare, non direttamente, approfittando dello sguardo abbassato sulla lettura o degli occhi rivolti allo scorrere del panorama di vetro sporco. 

Giovedì, 13 gennaio 1983
Oggi ho preso coraggio. Era seduto di fronte a me. A un certo punto gli ho chiesto come aveva trascorso le feste. Mi ha risposto che le aveva passate bene e mi ha ringraziato. Però non ha ricambiato la domanda. Oggi comunque è stato un giovedì importante perché per la prima volta ci siamo rivolti la parola. Sono sicura che lo faremo ancora. Diario, che mi piace scrivere lo hai capito, ma forse non sai che anche parlare non mi dispiace per niente. Il punto è trovare persone con cui riuscire a farlo come piace a me. Qualcosa mi dice che io e lui, più avanti, parleremo di molte cose. Me lo sento.
Inevitabile che dopo un certo numero di volte avessero cominciato a uscire delle parole. All'inizio frasi di circostanza. Dopo un certo numero di viaggi vere e proprie confidenze. Però ancora non aveva saputo a quale fermata successiva alla propria lui scendesse. 

Giovedì, 16 marzo 1983
Ormai parlo. Di un po' di tutto. Anche del mio lavoro. All'inizio non volevo, ma lui non è superficiale come tutti gli altri, a lui forse interessa quello che faccio. Mi ascolta quando gli parlo dei dischi di David Bowie. Gli ho detto quante volte ho già ascoltato l'ultimo, "Let's dance". Parlo tanto. Forse troppo? Per questo lui parla poco o niente? Dovrò stare attenta a non esagerare. Non vorrei che cominciasse a considerarmi una rompiscatole. 
Tre quarti d'ora di viaggio lei e un altro po’, mai saputo quanto, lui. Lei scendeva prima, ma fino a quel momento parole, parole, parole. I suoi giovedì dalle sette e un quarto alle otto del mattino, tempo del viaggio per recarsi al lavoro, andavano così. Erano cominciati d'inverno, al buio, ed erano continuati fino a primavera, lucenti di sole giovane e verdi di campi a interrompere il flusso di capannoni industriali e villette fai da te. Le piaceva, con quel suo sguardo nero profondo che le comunicava sicurezza e compiacimento. Sì, un uomo sicuro di sé, quello che tutte le donne vorrebbero. Alto, educato, borsa di cuoio. Mai saputo però cosa facesse. Chissà se lui, mentre parlavano, mentre lei parlava anzi – perché lui più che altro ascoltava – la trovava attraente. Comunque c'era la testa. La sua era di un castano comune ma dentro c'era il grigio, quello della materia. Poteva parlare di qualunque cosa: una rara edizione di uno scritto del '500? Un prezioso incunabolo conservato presso quella certa fondazione? Le mille e una notte nella traduzione di Mardrus? I versi dei Carmina Burana? I film di Renoir? Bastava scegliere. Anche di Bowie, il suo cantante preferito. Sapeva tutto di Angela Bowie, la prima moglie.

Giovedì, 14 Aprile 1983
Sono già quattro giovedì che gli racconto di me. Lui mi ascolta. Non parla molto, ma mi ascolta. E mi guarda le mani. Gli piaccio? Lui a me piace. Altre volte, di altri uomini, diario, ti ho detto che mi piacevano. Sì, ma non così tanto. Significherà qualcosa o no? 
Rotto il ghiaccio, diventati quasi intimi, restava da capire se ciò di cui lei gli parlava lo interessasse davvero o solo per finta, per una forma di gentilezza. Anche perché, a parte qualche domanda di cortesia, a parlare era sempre lei. Solo lei. Quei denti bianchi, così regolari. E l'orologio elegante. E le scarpe, mai impolverate o infangate. Mai niente fuori posto, mai spettinati quei capelli neri. Non parlava, però la guardava. Osservava le sue mani. Dita lunghe, unghie curate. Le vene sul dorso, visibili, ma non troppo in rilievo. Sul palmo una linea dell'amore lunga e regolare, senza incidenti di percorso, forse per quello non le accadeva sentimentalmente mai nulla. Gliele avesse anche solo sfiorate quelle mani, quando capitava fossero seduti l'uno accanto all'altra, separati dal bracciolo di finta pelle scarnificata dalla noia dei pendolari, che partono al mattino pensando già al treno della sera. Il rientro. Da sola. Non aveva mai capito a che ora lui ritornasse. E da dove. Forse con il locale immediatamente successivo o magari con il diretto un'ora dopo. Si chiamavano ancora così i treni. 

Giovedì, 21 aprile 1983
È successo. Un po' mi piace e un po' no. Non pensavo che avrei potuto farlo così. Non voglio ricordarlo quel posto. Voglio solo che arrivi giovedì prossimo per vederlo, per parlargli. Sono contenta. Anche se lui è stato un po' strano. Sono contenta, voglio che stiamo insieme. Giovedì cominceremo a stare insieme, io e lui.
La mattina del giovedì successivo lui le aveva preso la mano, approfittando del fatto che lei l'aveva posata sulla mensola sotto il finestrino. Stavano seduti l'uno di fronte all'altra e lei, la mano che con garbo teneva la sua, l'aveva stretta, forte, con l'intensità di chi ha atteso quel momento da tanto. Si erano guardati negli occhi. Poi lui si era alzato, sempre tenendole la mano: un invito a seguirla. Libero. Spazio angusto, sapone da quattro soldi. Profumo chimico sull'odore dell'umanità di corsa. Il desiderio guarda fisso in una direzione, esclude tutto il resto. La levetta scatta. Sono al sicuro. Il rumore lì è ancora più forte, amplificato dal metallo forgiato per sopportare la quotidianità degli estranei. Loro due in piedi, inchiodati contro la porta. Più presa lei. Lui distaccato; sempre con garbo, anche lì con garbo. Rapido in quel treno diretto che aveva cominciato a frenare sul più bello. Prossima fermata quella di lei. Ora di scendere. Comunque non aveva ancora capito in quale stazione successiva alla sua scendesse lui.

Giovedì, 28 aprile 1983
Oggi non c'era. Forse ha avuto un contrattempo. O è partito prima. O dopo. Una settimana fino a giovedì prossimo. Lui ci sarà. Una persona come lui non scompare senza dire niente. Non mi va più di scrivere. Vaffanculo. Ciao diario.
Mai era salita in treno così carica. Dieci minuti, la prima fermata, e sarebbe salito anche lui. Sul marciapiede però non lo vide. Che si trovasse qualche vettura più avanti? Ma sì, ora si sarebbe aperta la porta che collega il vano di entrata con la zona dei posti a sedere e l'avrebbe visto arrivare, come ogni giovedì. Non si aprì niente. 

Giovedì, 5 maggio 1983
Oggi c'era. Da oggi per me non c'è più.
Scesi i gradini del predellino, dopo aver percorso qualche metro sul marciapiede del binario numero sei si girò, per cercare di capire ancora una volta se lui fosse sul treno. Due Giovedì senza ormai. No, non poteva esserci, se ci fosse stato, sarebbe stato in coda, come sempre, dove immancabilmente saliva lei, dove ogni giovedì si erano incontrati. E dove anche quel giorno non c'era. Mentre stava per scendere le scale del sottopassaggio, nonostante il riflesso del sole sul vetro del finestrino di quella vettura, centrale, non la loro, fosse abbagliante, lo riconobbe. Era seduto accanto a un'altra. E parlava. Il labiale vomitava un sacco di parole, troppe.

Giovedì, 16 giugno 1983
Ho una vita dentro, ma non pensavo che mi sarei sentita così. Banale. Causa ed effetto. Quel posto voglio dimenticarlo, non voglio ricordare che è accaduto lì.
No, nessun pentimento, il bambino del giovedì sarebbe rimasto con lei, solo con lei. Era sicura che non avrebbe avuto nulla di lui. Ne era certa. Se lo sentiva. Su certe cose non si sbagliava mai

*

Angela si alza dalla sedia. Scioglie l'elastico che le lega in una coda i capelli neri. Non ha mai conosciuto suo padre, ma gioca a immaginare che la storia sia quella. Sa solo che in quel diario trovato in cantina, sua madre, tutti i giovedì, per circa sei mesi, scrisse di un uomo incontrato in treno. Tante parole, ma senza dire niente. Un nulla attorno al quale lei aveva appena messo delle parole. 
"Solo per te non mi rammarico di essere il bambino del giovedì": questa la frase che vorrebbe dirle, se ci fosse ancora. Non sa in quale album di Bowie si trovi la canzone sul bambino del giovedì. Né trilogia berlinese né periodo glam. Suoni diversi, di fine secolo. Un momento più recente. Sua madre avrebbe avuto la risposta. Del Thin White Duke sapeva tutto. 


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mercoledì 9 luglio 2014

Ora di uscire


Racconto di Paolo Parigi


 
Labbra carnose ma non di gomma. Capelli viola, nuca da accarezzare anche solo con lo sguardo. Gli occhi un momento ti fissavano e subito dopo si posavano altrove tracciando una scia luminosa. 

Si era appena adagiata sul divano. Lui si sedette sulla poltrona di fronte. Musica. Il pianoforte cubista di Lennie Tristano avrebbe creato il suono giusto. Turkish Mambo, che non è un mambo. Un mambo vero e proprio non sarebbe stato adatto alla situazione. 


La fissava in silenzio. Anche lei, senza dire nulla, lo guardava. 
Belle ginocchia. Le sollevò. Stava per cominciare. 

Era venerdì sera. Ed era innamorato.
Lei si sfilò il vestito. Sotto il vestito niente. Cagate anni '80. C'era tutto invece, tutto quello che lui aveva sperato di vedere: un cuore. Un'icona scarabocchiata con tratto infantile sulla pancia. Promessa mantenuta. Il venerdì precedente le aveva chiesto di preparargli qualcosa di speciale. 

Il momento della spaccata eseguita frontalmente: l'attesa era tutta infilata in quell'attimo. Un minuto e sarebbe arrivata, lo sapeva. Turkish Mambo procedeva, sovraincisioni di tempi pari e dispari ingranati in un meccanismo perfetto. 
Il gesto giunse allo sfumare del brano, sulla cuspide del desiderio. Il cuore disegnato sulla pelle come punto di convergenza delle linee di fuga disegnate dalle gambe tese. 
Finito lì.

Chissà cosa avrebbe detto Brunelleschi di una scena così prospetticamente corretta.  
Quando pensava ai geni del passato non poteva fare a meno di immaginarli nella loro quotidianità, con gli abiti sporchi e le latrine nei cortili, tuttavia capaci di creare l'impossibile.

Nel frattempo lei era diventata una qualunque. La guardava senza più vederla. 

Dopo qualche minuto riprese a osservarla. 
Registrò per la centesima volta con lo sguardo le due cicatrici che firmavano le semisfere di plastica del seno. 
Per la centesima volta l'ombelico che incideva slabbrato la carne trascurata. 
Per la centesima volta gli zigomi chirurgici che sembravano ematomi. 
Non l'amava più, non l'avrebbe amata più. Almeno fino all'appuntamento successivo. Nonostante i suoi occhi lo penetrassero ancora profondi.

Si sentiva vuoto. Ma per fortuna era venerdì.
Venerdì sera, si esce. 

Tolse dal giradischi il vinile di Lennie Tristano e lo sostituì con un altro. In copertina quattro ragazzi non qualunque che fissano l'obiettivo. Il celebre album triplo col titolo militante esclamativo.
La puntina su Police on my back 
Si mise in posizione.  

La sirena di Scotland Yard ululata dalla chitarra. La batteria e il basso che entrano marciando. L'altra chitarra che ribatte la sirena sull'intervallo di ottava sotto. Pelle d'oca. 
Sapeva di essere uno di quelli coi capelli grigi che ascoltano solo i dischi di quando erano piccoli.
E così, a imitare braccia all'aria Topper Headon, poi a scimmiottare un po' Paul Simonon, con le dita sul niente ma precise, perché il giro di basso lo sapeva a memoria. Ma senza riuscire a rifare la voce di Mick Jones, che prima ti accarezza e poi ti pugnala mentre Strummer, dal fondo, l'avvolge di carta vetrata. 
"I've been running Monday, Tuesday, Wednesday, Thursday, Friday...". 
Giusto, venerdì. 
Ora di uscire. Da solo. Lei sarebbe rimasta sul divano. 

Avrebbe trovato un po' dei suoi nei soliti posti. 

Come sempre avrebbero riso e bevuto. 
Come sempre, avrebbe cercato senza trovarlo lo sguardo della trentenne fanatica dei Cure ma regolare di look, che aveva detto che a Boys don't cry preferiva Friday I'm in love. 
Era la tipa che un venerdì, quando lui stava con quella che ormai era la sua ex da anni, al quarto spritz gli aveva alitato in faccia che le sarebbe piaciuto scopare con lui. Aveva detto così, usando quella parola da ragazze di una volta.  
Non lo aveva ripetuto mai più.
L'alcol non dice mai la verità. "In vino veritas" è una sciocchezza.

Spense il lettore. Il televisore era ancora acceso. 
Prima di premere il tasto rosso fece in tempo a vedere scorrere per la centesima volta sullo schermo: "Valeria Vixen è disponibile anche per serate private e feste di addio al celibato. Per informazioni: vv@erosheroines.com" 



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mercoledì 2 luglio 2014

L'amore prima dei social


Racconto di Paolo Parigi




Mani salde sul volante, posizione dieci e dieci, da esame di guida. Lo sguardo fisso che buca il parabrezza, concentrato sul mio scopo senza scopo. Ho imboccato l'autostrada poco fa senza sapere verso dove. Prima di farlo ho azzerato il contachilometri. Un modo come un altro per dirmi che devo ricominciare.
Non ho effetti personali né abiti di ricambio. Pochi contanti, ma in compenso la tessera bancomat, la banda magnetica della tranquillità. Mi piacerebbe avere come unico obiettivo a breve termine quello di sputtanare quello che ci è rimasto dentro. 
Penetro il buio d'asfalto con andatura misurata, lasciando che le luci di posizione posteriori delle auto mi traghettino da qualche parte. Non ho fretta. Il tempo non c'è più.
Per qualche giorno voglio lasciarmi dietro tutto: È una frase fatta. E suona come una battuta, perché è il tutto che ha già lasciato me dietro di sé: ho perso il lavoro e la donna in un colpo solo. 
È mercoledì. Mi piacerebbe fosse possibile restare così, nel bel mezzo della settimana, senza dover affrontare il mio primo week-end senza donna e il mio primo lunedì senza lavoro. Poter fermare il tempo in questa dimensione di andata senza meta. Né meta come luogo né meta come scopo. Non ho più punti di arrivo perché non ho più punti di partenza. Vorrei poter eternare questo mercoledì sera, scavare una solida nicchia spazio-temporale in cui rifugiarmi.
Questa mattina il mio avvenire immediato prevedeva che verso sera sarei ritornato a casa e come sempre avrei parlato con Giovanna della giornata lavorativa. Nel giro di poco però è cambiato tutto. Il lavoro è sparito, lei anche. Per dirmi è finita mi ha dato appuntamento in un bar. Pensavo fosse per un aperitivo. Lo facciamo spesso. Facevamo. Mi ero preparato a dirle del lavoro perduto. Mi ero riproposto di farlo senza toni vittimistici. Se sei troppo poco alfa la femmina dopo un po' se ne accorge e ti scarta. La specie è selezione. Alla fine non l'ho proprio fatto. Il suo verdetto mi ha fatto dimenticare la questione del pane quotidiano. 
Ho urlato parecchio. Il male della ferita affettiva questa volta non l'ho sopportato in silenzio.  Devono ancora inventarla l'anestesia per quel tipo di amputazione. Uscendo ho incrociato sguardi imbarazzati.
Fatico a pensare di dover intraprendere un'altra volta un percorso in salita. Sono abbonato alle rottamazioni sentimentali. Questa volta vorrei una strada piana e silenziosa come questo nastro scuro diviso dalla riga bianca. 
Vorrei poter rimanere in equilibrio come il mercoledì, seduto comodo al centro della fila di sette sedie della settimana. 
Mi piace questa storia del mercoledì. I tedeschi pragmatici lo chiamano Mittwoch a indicare che se ne sta nel mezzo della settimana. Hanno sostituito il tuono di Odino con una parola piatta e funzionale. Gli antichi romani lo battezzarono giorno di Mercurio, forse pensando che Mercurio, messaggero degli dei, figura di tramite per eccellenza, potesse svolgere meglio di un Giove, di un Marte o di una Venere il ruolo di mediatore tra l'inizio e la fine della settimana. Non male questa pensata; tutta roba mia. Chissà se l’ha già avuta qualcun altro. Coglione che sono.
Fra non molto sarà giovedì, già troppo per me. Sento arrivare un'ondata di sconforto rispetto alla quale io sono la sabbia che la riceve assorbendone l'acqua schiumante di rabbia. Provo uno scoraggiamento che non combatto, cui cerco comunque di conformarmi, provando a immaginarmi imbuto in cui debbano confluire i mali che affliggono persone che conosco bene e conosco meno, l'ineluttabilità del fatto che certi affetti prima o poi andranno a riposare al freddo della pietra, l'insensatezza della caducità, il dolore, il dispiacere, la sofferenza. Mi penso imbuto pronto a ricevere e convogliare in una sorta di auto-punizione tutto ciò che non mi piace. Mi penso così. Ma forse è solo l'effetto del buio. 
Mi sfilano accanto vigne e campi coltivati. Riesco a percepirli nell’oscurità solo perché a tratti ricevono luce dai lampioni che accecano i piazzali davanti ai capannoni. Mi hanno sempre fatto tristezza quegli edifici; e non perché dentro si lavora, ma per la loro ortogonalità ottusa. Forse me la sto prendendo con loro solo perché in questo momento sono fuori dai giochi. 
Non voglio arrivare, desidero solo andare. Non m’interessa il dove, perché non provo più interesse né per il cosa né per il come. Solo così potrò lasciare da parte il chi, l'io, il me stesso da cui intendo estraniarmi, astraendomi e concentrandomi su quel poco che rimane di questo mercoledì, trasformando il tempo a venire in un mercoledì eterno, facendo in modo che il tempo, oltre a personificarsi in Aion, Chronos, Kairos e tutto il resto che mi piace sfoggiare, vada a coincidere con il concetto di “mercoledì”, dequalificandosi fino a identificarsi con un elementare bisogno di protezione. Mi è sempre piaciuto elucubrare. 

356,4 km dopo
È ancora mercoledì. Alla fine non ho fatto tutta la strada che mi ero ripromesso di fare, mi sono fermato prima, tanto un posto vale l’altro. Sono soddisfatto di trovarmi ora in un luogo di passaggio, uno spazio di sosta lungo un percorso, un'espressione topografica che sta tra la partenza e l'arrivo, un po’ come il mercoledì nella settimana. Più ci penso e più me ne convinco: vorrei che restasse sempre mercoledì. È un desiderio che tuttavia non può essere esaudito. Fra non molto sarà giovedì e allora mio malgrado dovrò muovermi, dovrò incamminarmi verso la domenica, la peggiore di tutti, il giorno più insopportabile per qualunque individuo si trovi in uno stato d’infelicità.  
Credo che almeno per un po’ mi autorecluderò in questo albergo accanto all'autostrada. Sono qui da mezz’ora. Dalla finestra si vede una stazione di servizio. La vita degli sconosciuti che va e viene. 
Accendo il televisore. È appoggiato sul frigo bar, dal quale mi guarderò bene dal prendere qualsiasi cosa perché ora che sono un disoccupato devo risparmiare su tutto ciò che è superfluo. Vorrei essere diverso, prendere le arachidi e il bitter, e magari farmi portare in camera anche una bottiglia di qualcosa, ma non lo farò perché su di me il comandamento a rinunciare al “di più” ha sempre avuto la meglio. Coglione che sono. 
Ci metto poco a trovare l’emittente musicale. La solita. All’inizio non capisco di chi sia il brano in onda, ma poi riconosco la cantante, che trovo cambiata rispetto a come si presentava qualche tempo fa. Ora è una bambolina di carne ribelle ben costruita, perfetta per le melodie taglienti e ben confezionate dei suoi brani. A non farmi cambiare canale non sono tuttavia i suoi begli occhi pesti di rimmel – mi urta sapere i nomi di queste cose da donne – né la sua vita sottile e nervosa, ma l’impasto, magico, tra il respiro elettrico delle chitarre, il pulsare instancabile della batteria e la carne del basso, una pozione che da trent’anni non smette di compiere su di me il suo incantesimo. 
Non do retta a chi è pronto a dirmi che sì, ok, questa alla fin fine è musica pop, è commerciale, è merda e via discorrendo. In questo momento la sto ascoltando e schifo non mi fa; io posso permettermi anche questo, vorrei dire al mio immaginario sinedrio, alla mia commissione mentale di difensori di non so quale ortodossia musicale, io posso permettermi di farmi piacere anche questo perché, grazie ad alcuni amici più grandi di me, caduti sulla terra da Marte, ho potuto inventare voi, perché io ascoltavo e sudavo i Ramones e i Sex Pistols quando voi non avevate abbastanza adrenalina e anticonformismo per farlo, perché io ho vi ho fatto conoscere i Clash, tromboni quanto basta per piacere anche a voi, quando ancora vi masturbavate seriosi, non seri, con le cantautorate, perché io quando avrò spento qui potrei passare ad ascoltare Big swifty di Frank Zappa, e mi piacerebbe uguale, magari più con la mente che con il corpo, e quella suite anno 1972 la conterei tutta, "conterei", non "canterei", conterei tutti i suoi obbligati di fronte alla vostra incredulità. Io, io, io. Coglione egoriferito che sono.
A non farmi cambiare canale in verità è altro.
Adesso la prospettiva di poterla avere, che comunque era già remota data l'età di Giovanna, si fa ancora più lontana. Di poterla mettere al mondo. Qui, in questo momento, non mi vergogno a figurarmela così, con una Gibson SG “Diavoletto” a tracolla e le All Star ai piedi, pronta a chiedere al suo papà come si suona questo o quel brano, mentre la sua mamma guarda il quadretto con serena accondiscendenza. Immagini di zucchero filato: i più evoluti riderebbero di me.
Zapping. Trovo un altro canale musicale. Niente ragazzine con chitarre, ma braghe cadenti nere di rabbia. Marketing del ghetto. Occhiali scuri, berretti col frontino piatto, cappucci. Mi piacerebbe capire cosa rimano. Qui da noi lo capiranno in pochi. Pochissimi tra quelli si scambiano sms con altri telespettatori del programma per vederseli immortalati sulla fascia alla base dello schermo mentre sfilano i videoclip . 
Nina 85, Cucciolo 90, Rapsta 87, Giuly girl, Thomas C, Filippo di Caserta, Suzy di Padova. Si firmano o danno il proprio nickname. Si amano o vogliono rivedersi dopo essersi incontrati una volta, supplicano chi li ha lasciati di ritornare, esternano disagi, dichiarano solitudine, cercano amore, filosofeggiano, si disperano, gioiscono. “Vorrei conoscerti Kevin xché mi piaci. Lita 89”, “Nikki, sei figo, ho visto il tuo mms. kiss, Kika 92”, “Ciao raga, sono innamorata da morire. Bacio by Destiny”, “Saluti da Salerno, Miky 90”. Quasi tutti pregano la regia di mandare il proprio messaggio, "mandalo ti prego", perché evidentemente non è possibile tecnicamente metterli tutti in sovrimpressione, presumo per ragioni fisiche, materiali, di spazio a disposizione. 
Io me ne sto qui a leggerli. Se quando avevo la loro età ci fosse stata la possibilità di buttare dentro il tubo catodico qualche parola scritta, lo avrei fatto anch'io. 
È quando leggo quel messaggio che decido di farlo. “Un giorno la felicità arriverà anche per me. Mandalo ti prego. Una quarantenne infelice”. Il testo dell'sms, rimasto in sovrimpressione per pochi secondi, recitava così. Una quarantenne in mezzo ad adolescenti o appena ventenni. Infelice. Non in modo drammatico e passeggero come può accadere a ragazze e ragazzi, ma senza squarci nelle nubi come può succedere solo a chi ha fatto il giro di boa. 
M’incuriosisce. Quasi mi piace che una coetanea abbia avuto la mia stessa idea. Manderò al numero in sovrimpressione un sms anch’io e mi firmerò “Un quarantenne infelice”, che non è un bugia. 
Inviato. 
Non mi resta che rimanere a guardare, attentamente, concentrandomi, perché le parole passano sullo schermo rapidissime, non ammettono che ci si distragga. 
Arriva un sms sul mio telefono e subito mi dimentico di quello che sto facendo. Mi sento già un idiota. Spero sia lei, Giovanna. 
No. La delusione mi decapita il respiro. È l’emittente che m’informa di aver ricevuto il messaggio dicendomi che dandomi un nickname sarò automaticamente registrato. 
Ho distolto l’attenzione dal televisore anche troppo. Riprendo a fissarlo focalizzando lo sguardo sulla fascia in basso, che appare, scompare e ricompare secondo una logica che non riesco ad afferrare, pronto a catturare il mio patetico S.O.S, ma sotto sotto rassegnato al fatto che non verrà mandato. 
E invece sì. 
Quando arriva mi sembra di leggere parole scritte da un altro. “E se oggi fosse il tuo giorno fortunato? Un quarantenne più infelice di te”.
Guardo e aspetto. Resto concentrato sulla fascia. 
Arrivato. Lo riconosco subito: “È un giorno fortunato perché ho incontrato te. A domani. Una quarantenne un po’ meno infelice”. 
Rivedo azzurro. So che durerà poco, ore, minuti forse. Una promessa per domani però è già un regalo. Dovrò informarmi sulla programmazione. O semplicemente aspettare con l’apparecchio acceso. 
È giovedì. Da pochissimo. Me lo dicono i cristalli liquidi senza che glielo abbia chiesto. Non voglio più sapere che ora è. 
È al mattino che i problemi arrivano freschi di virus, facendoti risvegliare infetto di angoscia, la stessa che la sera prima ti sembrava di essere riuscito a spurgare. Giovanna e il lavoro bussano alla porta della mia camera d'albergo strappandomi al sonno. A entrambi non servo più. 
"La sua posizione qui non è più indispensabile, crediamo sia onesto dirle che le risorse che ora destiniamo a lei debbano essere impiegate su un altro fronte". Niente da dire, non ho potuto fare altro che accettare la decisione. Andate a farvelo mettere nel culo.
"Non stiamo andando nella direzione giusta, tra noi in questi ultimi tempi si sono create sempre più incomprensioni. Non te l'ho detto prima, ma sto già cominciando a portare via la mia roba da casa... andrò a stare per un po’ da mia sorella. Anche per questo ho voluto che ci vedessimo qui, in questo bar, un posto neutro, per non rendere la cosa ancora più penosa. I nostri desideri non sono più in sintonia, è meglio se chiudiamo qui. Abbiamo già imboccato strade diverse, solo che non ce ne siamo accorti". 
Il giovedì comincia così. 
Il televideo funziona: sono riuscito a conoscere la programmazione dell'emittente. 
Eccomi, ore diciannove spaccate. Le lancette hanno riacquistato un senso. Sono in posizione, sdraiato sul letto a due piazze col telecomando a destra e il cellulare a sinistra, mentre fuori le automobili, gli autocarri, le moto e tutto il resto corrono verso i perché che io non ho più. Dal risveglio a ora mi sono concesso il lusso di non fare nulla di preciso e di pensare a un po' di tutto.  Ho anche fatto un centinaio di flessioni: percorrevo di norma almeno cinque chilometri a piedi al giorno, qualcosa devo inventarmi per innescare di nuovo la percezione del corpo.
Sono pronto. 
La band che sta schitarrando dietro i primi sms potrebbe fare meglio. Comunque è sulle voci che molti di questi gruppi cedono, perché cantano da boy band. Ma soprattutto hanno facce da boy band. Sono troppo belli. Dove sono finiti i soma scimmieschi degli Stones, i lineamenti squinternati degli Who, il manichino rachitico di Joey Ramone? Il rock'n'roll diffida dei belli, forse. Presley, il re, è un caso a parte. Se un tizio sul palco è troppo bello io inizio a sospettare di lui. Denti troppo regolari, nasini all'insù. Datemi facce come dico io.
Poi arriva. Subito dopo un: "Peace 2all. Manu di Rieti", si materializza il suo messaggio: "So che ci sei quarantenne ancora più infelice. Tua F.". Con tanto di nickname: “F.”. 
Ci sono "F puntato", ci sono e ti messaggio subito: "Il tuo quarantenne oggi è un po' meno infelice grazie a te. 
Resto sdraiato, non mi scompongo sperando di favorire con l'immobilità la pubblicazione del mio sms. Coglione che sono.
Azzero il volume. Sta iniziando una canzone anni 80 con un odioso video a fumetti. Gli anni dei revival in tv, la brutta triade 84-85-86 delle canzoni di plastica e gommina. Tutt'altra cosa gli 80 precedenti, officina di suoni mai sentiti prima, anni che voglio restino solo miei e dei pochi iniziati con i quali mi illudo di avere condiviso esperienze uniche. L'allegria comandata delle televisioni col sorriso incorporato mi faceva malinconia già allora, tanto quanto i politicanti delle assemblee scolastiche di pochi anni prima. Mi sento spaesato in troppi posti, è un mio problema.
Continuo a fissare la fascia, incerto se mandare un altro sms o meno.
Mi anticipa lei: "A domani, stessa ora. Datti un nome, gentile quarantenne F.". 
Le diciotto e cinquantotto, sono già sul pezzo. Le ore contano di nuovo. Sono sdraiato sul letto, esattamente come ieri. Sono pronto anche a darmi un nome. Voglio giocare la carta dell'ironia. In risposta al suo "F." mi firmerò "P puntato", per esteso. 
Questa volta voglio cominciare io. Mando all’emittente un sms con il mio nickname. Scrivo “Nick: P puntato” e invio. Poi digito: “Il mio nome è P puntato cara F puntato. Punto a te”. Invio. Mi sto autocompiacendo. Coglione che sono. 
“Punti su un cavallo perdente. Ho perduto anche il mio uomo. Tua F.". 
Ho già le dita sulla tastiera: “Forse il tuo uomo lo stai conoscendo ora. Anch’io ho perso la mia donna". 
È arrivato il sabato. Non manca molto al momento in cui se ne andrà anche lui.
Ho fatto le solite cose. Ho ammazzato la maggior parte del tempo in camera. Da quando sono qui il disagio è direttamente proporzionale alla luce. È acuto al mattino, totale a ora di pranzo, faticoso al pomeriggio, alleggerito nel tardo pomeriggio e sopportabile la sera. Poi riprecipita: passo la notte tra il dormiveglia e la tv, fino a che non sprofondo in un sonno pieno di sensi di colpa che dura poco. 
Bene, sono in posizione, sdraiato, il cellulare nella destra. Il brano che sta uscendo dal televisore spacca sempre: i Red Hot Chili Peppers in quell'album hanno dato il meglio. Il video è geniale, quattro folli dipinti di argento, immagini solarizzate. Chi mi colpisce rispetto al presente è il chitarrista. All'epoca un fulminato pelle, ossa e muscoli essenziali, ora un post-mistico appesantito che indossa camicie di flanella. In un'intervista, tempo fa, l'ho sentito vaneggiare su Leonardo Da Vinci, Ozzy Osbourne e David Bowie. Bello averli messi insieme così, senza ossequio ad alcun paradigma. Non escludo sia capitato anche a me di farmi un brano dei Black Sabbath e subito dopo sfogliare un articolo sul Cenacolo di Leonardo, passando poi mezz'ora dopo ad ascoltare Low di Bowie in vinile. Potrei benissimo averlo fatto, anzi, spero proprio di averlo fatto. 
Attendo. "F puntato" mi ha dato appuntamento. Mi fido di lei. 
Eccolo: "L'ho lasciato io e già me ne pento. F.". 
Sono già sui tasti: "Né pianti né rimpianti, perché non la pianti e mi dici qualcosa di te? Tuo P puntato”. 
Quando vedo apparire il mio sms sulla fascia mi rendo conto che non è altro che il tentativo di fare il simpatico giocando con le parole. Qualche minuto dopo, accompagnato dalle immagini di una boy band riunitasi dopo dieci anni, appesantita e plastificata, leggo la sua risposta e mi rendo conto che il tentativo di sdrammatizzare è abortito: “Niente figli. L’ho lasciato per quello. F.”. 
Cercavo la complicità e ho trovato la confidenza. Meglio che niente.
“Volevo dei figli e invece sono stato mollato. P puntato”. 
Nonostante me ne resti in posizione e con lo sguardo fisso sulla fascia fino al termine alla trasmissione, il mio sms non lo vedo. Dovrò attendere lunedì, assediato dal pensiero che lei creda che io non abbia voluto continuare la conversazione da pollice. 
La domenica è quasi finita. Ed è arrivata la consapevolezza che il peggio se n'è andato, se non altro il peggio della prima fase del peggio. Seguiranno altre fasi, ciascuna con il proprio colore e il proprio umore, ciascuna con un apice, ciascuna con una salita e una discesa. La domenica è stata esattamente come gli altri giorni. A parte il palinsesto televisivo, che non prevedeva la mia trasmissione. La domenica non fa così schifo quando sai che sta per andarsene.
Lunedì, ore diciannove, nulla è cambiato. Sguardo fisso sullo schermo e mano armata di cellulare. Non so con quali parole "F puntato" potrà esordire, visto che il mio ultimo sms non è stato mandato sulla fascia. Attendo. La fascia appare e scompare ogni tre o quattro minuti. 
Aspetto, ostinato, concentrato. Finalmente arriva: “Subisci o ti auto-punisci amico P puntato? F.”. 
Non c’è dubbio, il contenuto del messaggio è coerente con l’ultimo inviato da me sabato. Quello che non ho visto, che mi è sfuggito. Una mia distrazione, l'attenzione alla deriva nella bonaccia plumbea di questo mercoledì eterno. 
“Forse mi punisco perché so che alla fine è sempre colpa mia gentile F puntato. P puntato”. 
Brutta cosa l’autocommiserazione.
Dopo un paio di video da classifica e tante parole da zainetto ritorna: “L'ho lasciato perché non stavamo andando da nessuna parte. F.”. 
Anch’io avrei voluto proiettare la mia relazione con Giovanna verso una genesi. Invece è finita in una penosa apocalisse da bar. Il pensiero corre alla ragazza con la Gibson “Diavoletto”e le All Star. Vorrei che trasmettessero il suo video adesso.
Se fosse veramente il giorno di Marte, o di Tyr per quelli che vivono al freddo e danno lezioni, sarebbe stata una guerra, ma già dalle prime ore del mattino il martedì si è dimostrato pacifico. Questa notte ho dormito. 
Arrivano le diciannove. E poco dopo il suo sms sullo schermo: “Come è andata veramente? Perché lei ti ha lasciato? F.”. 
Io: “Mi ha detto che stavamo facendo percorsi diversi. P puntato”. 
Lei: “A lui ho detto le stesse cose. Non ti piacerei. Lo rivoglio. Voglio che ritorni perché se n’è andato. Ciao P puntato. F.”. 
Con me non gioca più. Mi ha salutato. Mi ha licenziato dal televisore. Mi ero già affezionato. Mi affeziono quasi subito alle persone.
Dopo cena salderò il conto con il pezzo di plastica che mi para il culo. E domani via, ripercorrerò all’inverso la rotta che mi ha fatto approdare qui: lo dico a me stesso proprio così, usando un giro di parole, perché il termine casa stride col mio stato d'animo. Coglione che sono.
È finito il mercoledì eternato, è arrivato di nuovo quello vero. Ora di ritornare. Ho azzerato ancora il contachilometri. Anche questo viaggio a ritroso è un nuovo inizio. Non ci metterò poco. So che farò delle soste, sebbene non ce ne sarebbe bisogno. Perderò tempo. Prenderò tempo. Autogrill come boe su un mare scuro, freddo.

356,4 km dopo
È sera. Sotto i piedi lo zerbino di casa. A mezzaluna, per sentirmi diverso dagli altri condòmini che ce l'hanno rettangolare. Coglione che sono.
Infilo la chiave nella toppa. 
Un solo giro e scatta la serratura. Impossibile. Giovanna è coscienziosa. Se ha chiuso con una sola mandata è perché aveva fretta, tanta, tanta fretta di sparire.
Apro. L'odore mi assale, carico di ricordi che dovrò sostituire con la puzza della solitudine. 
Mi aspettavo il buio, invece mi accoglie una luce fioca.
Il riverbero giallo di un lampione penetra dalla porta-finestra del soggiorno. È spalancata.
Mi fermo.  
I suoni che sento non provengono dell'appartamento accanto, ma dalla camera da letto. 
Accendo la luce. 
Indugio ancora qualche secondo.
Sì, in casa c’è Giovanna. 
Si è chiusa dentro, come fa sempre quando è sola.
Da sua sorella non è più andata. 
Vado verso la camera. La musica viene dal televisore. Ora la percepisco chiaramente: è la ragazza con la Gibson “Diavoletto”. Una coincidenza. O forse solo statistica visto che la sua canzone è in classifica. 
Non mi ha sentito. Magari è in bagno. Le donne trascorrono la vita davanti allo specchio del bagno.
Mi fermo di nuovo. Non so se ho voglia di rivederla. 
Mi affaccio alla camera. 
Dorme. I capelli neri con qualche spruzzo di grigio. 
Lei scura, io chiaro. Quelle puttanate sui diversi che si attraggono. Ma forse sono gli opposti.
Ho letto che il biondismo ha avuto origine come anomalia genetica circa diecimila anni fa. Tra quelli che si giocavano la sopravvivenza con le frecce di selce probabilmente sarei stato discriminato. La cosa mi gonfia di autocompiacimento. Coglione che sono. 
Dalle sue labbra affiora il ritmo quasi impercettibile del respiro. 
Sul comodino alla sua sinistra c'è il telecomando. 
Il cellulare è ancora sul palmo della mano, come se fino a prima di scivolare nel sonno lo avesse tenuto fra le dita. 
Si è addormentata davanti a mtv. 
No, è un'altra emittente, me ne rendo conto quando sulla parte bassa dello schermo appare una fascia, quella fascia. 
Giusto, al mercoledì la trasmissione va in onda alle undici di sera. 
Faccio piano, non voglio svegliarla. 
Nel sonno non sembra una persona infelice. 
Più tardi forse glielo dirò. O magari le invierò un sms: "Da P puntato: a guardarti mentre dormi non sembreresti così infelice F puntato". F come Farfalla. All'inizio la chiamavo così. Una farfalla nera in sogno, le dicevo, citando il testo di una canzone. 
Mi sdraio accanto a lei. La parole sulla fascia non mi interessano più. Desidero solo il mezzo minuto che resta del video. Voglio iniettarmi nelle pupille ogni singolo fotogramma della nostra figlia immaginaria, di lei che canta e suona imbracciando la sua Gibson SG "Diavoletto" cherry red con le All Star ai piedi. Non voglio altro. 


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