Racconto di Paolo Parigi
Giovedì 9 novembre 1982
L'uomo che vorrei esiste.
Tu lo sai. È elegante, riservato, in ordine. Ha gli occhi neri. Oggi era seduto
davanti a me. L’avevo guardato a lungo giovedì scorso. Osservo molto le
persone durante i miei viaggi quotidiani in treno. Lo faccio senza che se ne
accorgano. Lo sto dicendo per la prima volta a te diario. Chissà se anche lui
ha fatto come me, se mi ha guardato facendo in modo che io non lo
scoprissi.
Lo incontrava all'andata.
Quel treno lui lo prendeva una volta la settimana, di giovedì, sempre alla
stessa ora. Saliva alla prima fermata. Era il suo aspetto, sì, il suo aspetto, ad
attirarla.
Giovedì 30 novembre 1982
È il quarto giovedì che lo
incontro. L'ho guardato bene. Porta sempre abiti eleganti. Ha i capelli folti,
neri. Da uomo che mantiene ciò che promette. Sì, diario, non intendo riaprire la
questione; di promesse infrante ti ho parlato ormai troppe volte. Voglio però
dirti una cosa: ci sono dettagli che rivelano il modo di essere di una persona.
Di lui, di quest'uomo che vedo in treno, credo di sapere già molto grazie ai
particolari. Parlo di come si veste. A un'altra magari darebbe fastidio il
fatto che indossa sempre le stesse cose. A me no. Significa che sa cosa vuole. Su
queste cose io non sbaglio mai.
Ormai aveva capito molto
di lui. Per esempio che indossava sempre le stesse tre paia di calzoni. Che
preferiva le camicie scure e gli abiti con la giacca a due bottoni. Credeva di
aver capito anche molto altro. Pensava di avere un sesto senso per i destini
luminosi.
Giovedì, 7 dicembre 1982
Mi piace stare seduta
vicino a lui. Non credo si sia ancora accorto che lo osservo. Appena alza
lo sguardo, faccio finta di niente. Quando è seduto davanti a me, per non
rischiare di farmi scoprire, punto la sua immagine riflessa sul finestrino.
Funziona. Crede che io stia guardando fuori. Oggi è successa una cosa bella.
Per me almeno. Ha rivolto gli occhi verso l’esterno anche lui ed e le nostre
immagini riflesse si sono imbattute l’una nell’altra; le nostre pupille si sono
toccate. Sono sicura che per un momento mi abbia fissata. Mi è parso di
arrossire, ma se anche fosse stato, non si è notato: un'immagine restituita da
un vetro non può far trapelare le emozioni ma può dire molte cose, coglie la
persona nella sua verità. Io penso di essere spontanea. Qui e ora, diario, sto
scrivendo quello che provo con sincerità, credimi, ma lo sai, perché non ti ho
mai mentito.
Capitava un po' per caso e
un po' no che si trovassero sempre vicini. Anche l'uno di fronte all'altra, oppure
l'uno accanto a un finestrino e l'altra accanto a quello speculare, sul lato
opposto della vettura, comunque in modo da potersi osservare, non direttamente,
approfittando dello sguardo abbassato sulla lettura o degli occhi rivolti allo
scorrere del panorama di vetro sporco.
Giovedì, 13 gennaio 1983
Oggi ho preso coraggio.
Era seduto di fronte a me. A un certo punto gli ho chiesto come aveva trascorso
le feste. Mi ha risposto che le aveva passate bene e mi ha ringraziato. Però
non ha ricambiato la domanda. Oggi comunque è stato un giovedì importante
perché per la prima volta ci siamo rivolti la parola. Sono sicura che lo faremo
ancora. Diario, che mi piace scrivere lo hai capito, ma forse non sai che anche
parlare non mi dispiace per niente. Il punto è trovare persone con cui riuscire
a farlo come piace a me. Qualcosa mi dice che io e lui, più avanti, parleremo
di molte cose. Me lo sento.
Inevitabile che dopo un
certo numero di volte avessero cominciato a uscire delle parole. All'inizio
frasi di circostanza. Dopo un certo numero di viaggi vere e proprie confidenze.
Però ancora non aveva saputo a quale fermata successiva alla propria lui scendesse.
Giovedì, 16 marzo 1983
Ormai parlo. Di un po' di
tutto. Anche del mio lavoro. All'inizio non volevo, ma lui non è superficiale
come tutti gli altri, a lui forse interessa quello che faccio. Mi ascolta
quando gli parlo dei dischi di David Bowie. Gli ho detto quante volte ho già
ascoltato l'ultimo, "Let's dance". Parlo tanto. Forse troppo? Per
questo lui parla poco o niente? Dovrò stare attenta a non esagerare. Non vorrei
che cominciasse a considerarmi una rompiscatole.
Tre quarti d'ora di viaggio
lei e un altro po’, mai saputo quanto, lui. Lei scendeva prima, ma fino a quel
momento parole, parole, parole. I suoi giovedì dalle sette e un quarto alle
otto del mattino, tempo del viaggio per recarsi al lavoro, andavano così. Erano
cominciati d'inverno, al buio, ed erano continuati fino a primavera, lucenti di
sole giovane e verdi di campi a interrompere il flusso di capannoni industriali
e villette fai da te. Le piaceva, con quel suo sguardo nero profondo che le
comunicava sicurezza e compiacimento. Sì, un uomo sicuro di sé, quello che
tutte le donne vorrebbero. Alto, educato, borsa di cuoio. Mai saputo però cosa
facesse. Chissà se lui, mentre
parlavano, mentre lei parlava anzi – perché lui più che altro ascoltava – la
trovava attraente. Comunque c'era la testa. La sua era di un castano comune ma
dentro c'era il grigio, quello della materia. Poteva parlare di qualunque cosa:
una rara edizione di uno scritto del '500? Un prezioso incunabolo conservato
presso quella certa fondazione? Le
mille e una notte nella traduzione di Mardrus? I versi dei Carmina Burana? I film di Renoir?
Bastava scegliere. Anche di Bowie, il suo cantante preferito. Sapeva tutto di
Angela Bowie, la prima moglie.
Giovedì, 14 Aprile 1983
Sono già quattro giovedì
che gli racconto di me. Lui mi ascolta. Non parla molto, ma mi ascolta. E mi
guarda le mani. Gli piaccio? Lui a me piace. Altre volte, di altri uomini,
diario, ti ho detto che mi piacevano. Sì, ma non così tanto. Significherà
qualcosa o no?
Rotto il ghiaccio,
diventati quasi intimi, restava da capire se ciò di cui lei gli parlava lo
interessasse davvero o solo per finta, per una forma di gentilezza. Anche
perché, a parte qualche domanda di cortesia, a parlare era sempre lei. Solo
lei. Quei denti bianchi, così
regolari. E l'orologio elegante. E le scarpe, mai impolverate o infangate. Mai niente
fuori posto, mai spettinati quei capelli neri. Non parlava, però la
guardava. Osservava le sue mani. Dita lunghe, unghie curate. Le vene sul dorso,
visibili, ma non troppo in rilievo. Sul palmo una linea dell'amore lunga e
regolare, senza incidenti di percorso, forse per quello non le accadeva
sentimentalmente mai nulla. Gliele avesse anche solo sfiorate quelle mani,
quando capitava fossero seduti l'uno accanto all'altra, separati dal bracciolo
di finta pelle scarnificata dalla noia dei pendolari, che partono al mattino
pensando già al treno della sera. Il rientro. Da sola. Non aveva mai capito a
che ora lui ritornasse. E da dove. Forse con il locale immediatamente
successivo o magari con il diretto un'ora dopo. Si chiamavano ancora così i
treni.
Giovedì, 21 aprile 1983
È successo. Un po' mi
piace e un po' no. Non pensavo che avrei potuto farlo così. Non voglio
ricordarlo quel posto. Voglio solo che arrivi giovedì prossimo per vederlo, per
parlargli. Sono contenta. Anche se lui è stato un po' strano. Sono contenta,
voglio che stiamo insieme. Giovedì cominceremo a stare insieme, io e lui.
La mattina del giovedì
successivo lui le aveva preso la mano, approfittando del fatto che lei l'aveva
posata sulla mensola sotto il finestrino. Stavano seduti l'uno di fronte
all'altra e lei, la mano che con garbo teneva la sua, l'aveva stretta, forte,
con l'intensità di chi ha atteso quel momento da tanto. Si erano guardati negli
occhi. Poi lui si era alzato, sempre tenendole la mano: un invito a seguirla. Libero. Spazio angusto,
sapone da quattro soldi. Profumo chimico sull'odore dell'umanità di
corsa. Il desiderio guarda fisso
in una direzione, esclude tutto il resto. La levetta scatta. Sono al
sicuro. Il rumore lì è ancora più forte, amplificato dal metallo forgiato per
sopportare la quotidianità degli estranei. Loro due in piedi, inchiodati contro
la porta. Più presa lei. Lui distaccato; sempre con garbo, anche lì con garbo.
Rapido in quel treno diretto che aveva cominciato a frenare sul più bello.
Prossima fermata quella di lei. Ora di scendere. Comunque non aveva ancora
capito in quale stazione successiva alla sua scendesse lui.
Giovedì, 28 aprile 1983
Oggi non c'era. Forse ha
avuto un contrattempo. O è partito prima. O dopo. Una settimana fino a giovedì
prossimo. Lui ci sarà. Una persona come lui non scompare senza dire niente. Non
mi va più di scrivere. Vaffanculo. Ciao diario.
Mai era salita in treno
così carica. Dieci minuti, la prima fermata, e sarebbe salito anche lui. Sul
marciapiede però non lo vide. Che si trovasse qualche vettura più avanti? Ma
sì, ora si sarebbe aperta la porta che collega il vano di entrata con la zona
dei posti a sedere e l'avrebbe visto arrivare, come ogni giovedì. Non si aprì niente.
Giovedì, 5 maggio 1983
Oggi c'era. Da oggi per me
non c'è più.
Scesi i gradini del
predellino, dopo aver percorso qualche metro sul marciapiede del binario numero
sei si girò, per cercare di capire ancora una volta se lui fosse sul treno. Due
Giovedì senza ormai. No, non poteva esserci, se ci fosse stato, sarebbe stato
in coda, come sempre, dove immancabilmente saliva lei, dove ogni giovedì si
erano incontrati. E dove anche quel giorno non c'era. Mentre stava per scendere
le scale del sottopassaggio, nonostante il riflesso del sole sul vetro del
finestrino di quella vettura, centrale, non la loro, fosse abbagliante, lo
riconobbe. Era seduto accanto a un'altra. E parlava. Il labiale vomitava un
sacco di parole, troppe.
Giovedì, 16 giugno 1983
Ho una vita dentro, ma non
pensavo che mi sarei sentita così. Banale. Causa ed effetto. Quel posto voglio
dimenticarlo, non voglio ricordare che è accaduto lì.
No, nessun pentimento, il
bambino del giovedì sarebbe rimasto con lei, solo con lei. Era sicura che non
avrebbe avuto nulla di lui. Ne era certa. Se lo sentiva. Su certe cose non si
sbagliava mai
*
Angela si alza dalla sedia.
Scioglie l'elastico che le lega in una coda i capelli neri. Non ha mai
conosciuto suo padre, ma gioca a immaginare che la storia sia quella. Sa solo
che in quel diario trovato in cantina, sua madre, tutti i giovedì, per circa
sei mesi, scrisse di un uomo incontrato in treno. Tante parole, ma senza
dire niente. Un nulla attorno al quale lei aveva appena messo delle
parole.
"Solo per te non mi
rammarico di essere il bambino del giovedì": questa la frase che vorrebbe
dirle, se ci fosse ancora. Non sa in quale album di Bowie si trovi la canzone
sul bambino del giovedì. Né trilogia berlinese né periodo glam. Suoni diversi,
di fine secolo. Un momento più recente. Sua madre avrebbe avuto la risposta. Del
Thin White Duke sapeva tutto.
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