venerdì 31 ottobre 2014

La verità è nel frontespizio

Racconto di Paolo Parigi





Nella stanza gremita la voce suona ovattata. Qualcuno fa cenno di alzare il volume. Pausa. Il microfono fischia. Dopo alcuni istanti la lettura riprende.

“… sono sveglio da ore. Ho passato le ultime notti quasi in bianco. Sono stanco, ma ho deciso che attenderò l’ora del check-out impiegando il tempo in modo costruttivo. 
Non faccio nulla da tre giorni. Me ne sono stato tutto il tempo alla finestra a guardare i capitelli delle colonne di un portico, cimentandomi nell'attribuirli a un periodo preciso. XI° secolo, sono giunto a questa conclusione. Sbozzati in modo semplificato, con i dettagli sfuggenti, come il ricordo di un sogno subito dopo il risveglio: la memoria del marmo antico che si fa sempre più vaga nella materia stilizzata dell'epoca successiva. 
Finora mi sono staccato dai vetri di questa stanza solo per scendere a prendere il kebab, due volte al giorno. Mi piace il mix di città europea e libri sul Medio Oriente che erompe da quei sapori avvolti nella carta oleata. A dire il vero ho interrotto a tratti la mia fissità sull'esterno anche per sdraiarmi sul pavimento a fare addominali; come se il tentativo di dotarsi di un carapace facesse curriculum. Ora devo darmi da fare, affrettarmi. Mi viene in mente il paradosso di Achille e la tartaruga: postula l'inutilità della velocità; lo fa in modo arguto ma non so se mi piace. Ho sempre avuto il passo svelto. Forse l'ho anche ostentato. Fare incontrare in uno spazio-tempo indefinito Zenone di Elea e Marinetti sarebbe una bella idea per un racconto di genere fantastico.

Dinamismo, prontezza. Devo darmi una mossa, reagire. Stilerò a memoria l’elenco delle cose alle quali ho lavorato in questi anni. Il blocco appunti con il logo dell’hotel: mi ha ispirato lui il buon proposito. Gli sto eccezionalmente dedicando l’inchiostro della mia biro di marca, quella che non uso quasi mai, forse per non mancarle di rispetto, perché è un regalo, prezioso e commovente come tutti i regali.

Non so con cosa cominciare. La campagna stampa di quelle attrezzature per il fitness? La campagna affissioni di quel latte alta qualità? La storia del divano in formato tascabile di quella marca di imbottiti? Le due o tre brochure di quegli scooter? La campagna affissioni contro alcool, fumo, guida pericolosa, droga e cos’altro non ricordo? Gli script di quella serie di spot? Un testo così, pieno di punti interrogativi e aggettivi dimostrativi, di norma finirebbe dritto nel cestino del pc.
Dovrò ricordarmi di inserire nell’elenco anche le cose fatte per il web, sempre che riesca a non fare confusione con nomi e domini. Importa poco comunque, la lista è più che altro per me; il mio scopo è riempire il vuoto del foglio e della vita diventata all’improvviso improduttiva.

Ora inizio, ho già perso troppo tempo; finora su questo blocco ho scritto tutt’altro, cioè quello che sto scrivendo ora. Non manca molto al momento in cui dovrò lasciare la stanza. Non ho denaro sufficiente per starci ancora. Sono chiuso qui da tre giorni. Sono arrivato al mattino. Ho fatto tutto come se dovessi andare al lavoro. Solo che il lavoro non c'era più. Allora sono entrato qui.
Non ho idea di cosa accadrà poi. Ritornare a casa ora non mi aiuterebbe. Non ho dimenticato il sapore amaro, sebbene amico, delle pillole della felicità. Non so cosa farò né dove andrò nei prossimi giorni. Sto provando a raccontare a me stesso che è una forma di libertà, ma non ci credo.”


Lo scrittore solleva il viso dalle pagine e rivolge lo sguardo al pubblico. Applauso.
 

Marco è in piedi, finalmente è arrivato il suo turno; era l’ultimo della fila. È trascorsa circa un’ora da quando l’autore ha terminato la lettura. Ora è seduto di fronte, dietro un banchetto. Marco gli si rivolge sorridendo. Vuole apparirgli quasi complice: – L’elenco non l’hai nemmeno iniziato… mi sa che è stato meglio così, vero?
– Infatti. Ho continuato a mettere nero su bianco il flusso di coscienza. Il blocco appunti dell’hotel avrà avuto almeno cinquanta fogli. Ho scritto nella hall fino a quando mi hanno invitato ad andarmene. Ho continuato in auto, in un parcheggio non a pagamento. Ho dormito sul sedile quattro notti. Trascorrevo le ore di luce a scrivere, appoggiando i fogli sul volante. Ogni tanto partiva per sbaglio un colpo di clacson… facevo dei giretti lì intorno per sgranchirmi le gambe. Un vigile urbano un pomeriggio mi ha chiesto se era tutto a posto. Un paio di volte al giorno andavo fino al bar più vicino per mangiare qualcosa e pisciare… concedimi il termine, tanto siamo rimasti soli. Il grosso del manoscritto l’ho buttato giù così.
– Incredibile. E scrivendo in quella situazione di disagio sei riuscito a trasformare in romanzo, con lucidità e realismo, la tua sconfitta… posso chiamarla così vero? Non dev’essere stato facile.
– Già. A proposito, ti chiami?
– Marco.
– Marco, visto che hai avuto la pazienza di aspettare così tanto ti faccio una dedica speciale… è un po’ più lunga del normale…  ho quasi finito… ecco fatto.
– Grazie! Se terrai un altro reading da queste parti passerò senz’altro.
– Chissà. Grazie a te Marco. Ciao.

Marco apre il libro; va subito al frontespizio. Sono passate due ore da quando è uscito dalla libreria. Non ha voluto leggere la dedica, preferisce assaporarsela con calma ora che è a casa.

È vero, per essere una dedica è insolitamente lunga. La calligrafia è chiara. La penna a sfera recita:

“Marco, devo confessartelo, ho raccontato un bel po’ di bugie, sia nel libro sia a te. A dispetto di quello che dice la quarta di copertina c’è ben poco di autobiografico in quello che ho scritto. E la storia dei giorni trascorsi a scrivere e dormire in auto l’ho inventata lì per lì, mentre parlavamo poco fa. Forse l’ho fatto per scaramanzia. Scusami. Un abbraccio.”.





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