venerdì 5 dicembre 2014

Dissenso (Mi è andata bene perché sono un artista)


Racconto di Paolo Parigi




Il contatto delle dita della mia mano destra con la ceramica liscia della candela di accensione mi sta inebriando. Avrà almeno trent'anni, l'odore di grasso lubrificante e scintille è rimasto. Nella sinistra stringo una bottiglia. I polpastrelli accarezzano lenti i rilievi dorati che ne blasonano l'etichetta. Roba buona, ricevuta clandestinamente.


Quello che accadrà tra poco non rimarrà nella storia ma spero guarirà la mia coscienza. Ci saranno delle conseguenze. I miei settantasei anni mi aiuteranno ad affrontarle con quella sorta di rassegnazione virtuosa che chiamano filosofia.


Mi abituai abbastanza rapidamente al "tempo nuovo", iniziato nel 2021. Decisero di chiamarlo così quelli che da allora comandano. Sono molto meno anziani di me. Al momento del putsch avevano dai venticinque ai trent'anni. Io cinquantasei. La nuova generazione ha imparato le loro biografie a memoria. Sono le prime parole dettate dalle maestre agli alunni. L'ultima volta che mio nipote è venuto a farmi visita con mio figlio mi ha mostrato orgoglioso il quaderno. Le telecamere del parlatorio avranno senz'altro apprezzato.

Vite dei "fondatori della rinascita" – l'informazione ufficiale, ridotta a un unico quotidiano cartaceo, li nomina usando questa formula novecentesca – raccontate nella piatta e scorrevole prosa di Stato: un esempio di "ritorno a quella virtuosa e schietta semplicità che la modernità sembrava aver dimenticato". Nelle assemblee alle quali gli "individui consapevoli" devono obbligatoriamente partecipare, ricorrono spesso queste parole. 


Mi rompevo i coglioni durante quelle aggregazioni forzate. Certo, ora darei due dita per essere lì anziché qui. Il problema è che poi me ne rimarrebbero solo sette. Nove anni fa mi hanno tolto il medio della mano sinistra. Ai destrimani quello della sinistra, ai mancini quello della destra: una forma di clemenza. "Una punizione simbolica" disse il giudice al momento di emettere la sentenza. Il medio, il gesto, tutta quella paccottiglia degli ultimi decenni del XX secolo, roba in cui non avevo mai creduto. Evidentemente per loro, per chi comanda, quello sberleffo archeologico è ancora importante, significa ribellione. Ciò nonostante l'enorme mano, con tutte le dita mozzate tranne il medio, collocata nel 2010 davanti all'edificio della Borsa di Milano, opera di un artista al tempo quotatissimo, fu rimossa per essere ricoverata in un luogo sicuro, al riparo dalle intemperie e dai vandalismi. Il potere le riserva una cura particolare. Un evidente controsenso. Uno dei tanti in questi decenni di totalitarismo.

Subito prima che il chirurgo di Stato mi asportasse il dito, l'anestesista recitò la formula che tutti qui dentro hanno dovuto ascoltare. Lo fece automaticamente, senza alcuna solennità, stancamente, perché il compito di rendere soft i ferri del boia in camice verde gli era stato imposto, non se l'era scelto. È da quando udii "in medio ne stat virtus" che sono chiuso qui, dal momento in cui sentii con le mie orecchie quel rovesciamento lapidario del proverbio latino, superficiale come tutti i proverbi. 



La mia cella di vetro da venticinque metri quadri con vista sulla città è il risultato della parcellizzazione di un grande attico. Sono un privilegiato separato da pochi altri privilegiati per mezzo di pareti insonorizzate con lastre di piombo e lana di vetro. Ad altri, a chi non conta niente, toccano i buchi molto più in giù, scavati nei primi cinque piani di questo Istituto di Rieducazione per i Traditori del Giusto: quattro metri per due con le pareti in mattone faccia a vista, soluzione estetica che l'Assemblea della Bellezza Radicale ha scelto poiché metafora di un mondo da ricostruire in chiave di solida essenzialità.


Mi è andata bene perché sono un artista. Lo ero. Ero ai vertici della piramide culturale. I temi che mi assegnavano li svolgevo diligentemente. E considerando che per non restare ai margini avevo scelto di rinunciare alla mia dignità, cercai anche di convincermi che ero nel giusto. Si fa qualsiasi cosa pur di non perdere il proprio ruolo.

Ci si abitua facilmente alla propria pochezza. Forse è stato più arduo abituarsi alla mancanza del web. Sentirsi di colpo isolati da tutto, fu quello l'effetto. Le requisizioni dei pc e dei device durarono a lungo. Ci vollero un paio d'anni per farli scomparire tutti. Il giovane agente – indossava l'uniforme in fibra di canapa che negli anni successivi ci siamo abituati a vedere ovunque – venuto a sequestrare i miei dispositivi fatti per parlare col mondo, mi disse che da quel momento in poi avrei vissuto meglio.

Le due pareti esterne della mia prigione di prima classe formano un'unica grande finestra angolare. Dalla conformazione si capisce che in origine la parte superiore si poteva aprire a ribalta. Quando l'edificio fu trasformato in penitenziario, i vetri furono sigillati. Non ci sono tende. La luce invade presto al mattino la mia cella a cinque stelle; nonostante ciò mi hanno vietato di dormire bendato. "La luce oltre che un dono è un simbolo" mi hanno ripetuto più volte gli addetti alla sorveglianza, "una metafora della rinascita". Uno di loro l'ultima volta, dopo la mia ennesima lamentela, ha accompagnato la parola "rinascita" con un gesto rotatorio della mano. Ricordo che un prete usò lo stesso gesto per porre l’accento sulla parola “conversione”. Avrò avuto otto anni. Se non altro in quel caso – lo appresi dopo – il gesto era coerente con l'etimologia del termine scelto.



Se sono finito qui a guardare il cielo tutto il giorno, è per colpa del cazzo. Non del mio, non ho fatto male a nessuna, a nessuno. Gli stupratori andrebbero neutralizzati, resi incapaci di nuocere. Non ho mai avuto problemi a dirlo, nemmeno ai miei tempi, quando ad affermare cose così, si finiva etichettati. All'umanità è sempre piaciuto incasellare le persone. Anche chi comanda oggi ha strane idee sulla questione violenza carnale. Idee sfuggenti. Ai dissidenti staccano le dita, a chi commette il più turpe dei reati invece lasciano metaforicamente attaccata quell'arma da vigliacchi.

Mi hanno rinchiuso quassù, al trentasettesimo piano, per colpa di un membro, sì, ma non di carne, disegnato. Nella mia mente. Un concetto che volevo si realizzasse nel marmo. Rigorosamente in un unico blocco. La penso come Michelangelo: la forma è già nella materia, missione dello scultore è farla emergere. Adottavo scrupolosamente la sua tecnica: iniziavo a sbozzare il parallelepipedo di pietra frontalmente, facendo affiorare la figura a poco a poco, passando progressivamente dal rilievo al tutto tondo. La fatica era il premio, il sudore il suo distillato. Non esiste l'artista, esiste solo l'artefice.



Quando l'11 settembre 2031 un commando fondamentalista fece irruzione alla Galleria dell'Accademia di Firenze svuotando i caricatori di cinque vecchi AK47 sul David e su tredici visitatori, pensai che l'umanità e l'arte fossero finite.

I nuovi potenti esortarono a fare gli opportuni distinguo. Qualcuno trovò delle motivazioni per quel gesto. Uno storico dell'arte di apparato sentenziò che quel marmo atletico ridotto in mille pezzi in un certo senso rendeva giustizia a secoli di dominazione da parte dei modelli di perfezione. "E poi David da troppo tempo si è trasformato in aguzzino", aggiunse con cipiglio convinto.

L'uomo che disse queste cose in televisione era lo stesso che per anni aveva deciso cosa dovessero rappresentare le mie opere di regime. Io non sono stato meglio di lui. Sono stato suo complice.

Guardando giù da queste pareti-finestre la prima cosa che vedo è l'insegna di legno del "Vegando", una catena pubblica di fast food vegano che si finge slow esibendo sedie impagliate e recipienti per l'olio extravergine di oliva in vetro anticato. Il "tempo nuovo" ha bandito gli alimenti di origine animale. I nostri uomini di potere però la carne continuano a mangiarla. Quando sedevo ai loro banchetti, ci tenevano a farmi sapere che proveniva esclusivamente da pollame allevato a terra, secondo i buoni vecchi metodi tradizionali. Quando mi domandarono un'opinione su quel format di ristorazione statale, risposi che sarebbe stato bello chiamarlo "Las Vegan" ma non rise nessuno.


Proprio davanti al "Vegando" c'è uno dei miei primi marmi. Raffigura una ruota di legno. Una ruota di legno fatta di pietra. Vollero che riproducessi anche le venature. Realismo didattico. Si chiama "Ritorno al Tempo Nuovo". Demenza immortalata nella materia nobile. La vergogna non mi dà tregua. È perennemente sotto i miei occhi.



Il giorno dell'attentato al David la mia vita cambiò. Non c'è un nesso preciso tra le due cose ma andò così. Fu allora che cominciai a concepire l'opera che mi ha segregato davanti a questa enorme finestra panoramica. L'idea del cazzo nacque quell'11 settembre 2031. Sorrido, la chiamo spesso così tra me e me. Quando lo dico al vetro, faccio il dito medio senza il dito medio divertendomi a guardare la mia inutile sagoma riflessa. Ai miei tempi sarebbe stata una performance da Biennale di Venezia. Ora la Biennale non c'è più. I padiglioni sono stati riconvertiti in laboratori artigianali, dove si produce in modo etico. Ci fanno lavorare solo le donne però. Lo decisero quelli che comandano, tutti maschi. 



Anche in questo preciso istante mi sto accingendo a compiere un gesto che qualcuno riuscirebbe a definire artistico. Mi sto ubriacando perché da sobrio mi mancherebbe il coraggio per portarlo a termine. La bottiglia di rum me l'ha allungata di nascosto un secondino alcuni giorni fa. La fortuna è che almeno la carta, le matite e i pastelli, quando mi confinarono qui, mi permisero di tenerli. Ho anche una radio, ma l'ascolto poco perché le emittenti trasmettono solo world music e sinfonie. La tv in prigione è vietata. 
Il mio giovane carceriere desiderava dei disegni erotici. È un bravo ragazzo che non ha potuto scegliere. Ho disegnato per lui una decina di tavole in bianco e nero. Ho curato i dettagli più di quanto sono solito fare. All'accuratezza lenticolare preferisco la forza risolutiva del tratto compendiario. 

Gli ho chiesto di procurarmi anche una vecchia candela d'accensione. Sapevo – me lo aveva detto lui – che suo padre da giovane aveva avuto un'officina di riparazione per le automobili, poi requisita per essere trasformata in una falegnameria sostenibile. Ha accolto quella nuova richiesta con perplessità, ma è riuscito ad accontentarmi. Gli ho detto che mi sarebbe piaciuto disegnarne una. Ha senz'altro pensato che fosse il desiderio bizzarro di un anziano rimbecillito dalla solitudine forzata, ma ha provveduto. La sua priorità era portarsi a casa i miei vortici di corpi di carta.


La pornografia è stata bandita tanti anni fa. "La pornografia è sessismo" sentenziarono al tempo quelli che comandano, tutti maschi. "L'atto sessuale stesso è sessismo" rimarcarono un paio di anni dopo. "L'atto sessuale volto alla procreazione, non solo è sessismo, è anche sopraffazione, riduzione del corpo femminile a macchina per la continuazione di una specie che si è arrogata il diritto di dominare sulle altre" aggiunsero sei mesi dopo. 

Sui muri iniziarono a comparire stencil che recitavano messaggi quali "In pochi è meglio!", "Non moltiplichiamoci, sommiamoci!" e così via. Tanti punti esclamativi, ma non poetici come quello di “Ultravox!”, band che ascoltavo da ragazzo, in un'altra epoca dell'umanità, bensì festosamente lugubri. A imprimerli in grafie con pretese di avanguardia erano artisti di regime, come me, ma di rango inferiore. Giravano incappucciati. In realtà era un'uniforme il cui stile s’ispirava a uno street artist dall'identità misteriosa acclamato anni prima. 



Il partito unico di quelli che comandano ha progressivamente imposto il controllo delle nascite. L'imperativo morale è "ridistribuire equamente le risorse". Messo in pratica però in modo distorto, ridotto a "meno siamo, meglio è". Un figlio a coppia, solo per il ristrettissimo novero di coppie ritenute degne del nuovo corso della storia. Poche, pochissime. Selezionare il meglio, proprio come i cibi di qualità. Chi ha la sfortuna di venire concepito fuori dalla cerchia degli eletti è respinto al non essere. Non sono pochi gli sfortunati. Il sacrificio per la buona causa è ammesso: il potere dal 2021 a questa parte esige consenso assoluto, cieca fedeltà.



Per questo ideai, nove anni fa, un'opera d'arte a forma di sesso maschile. E non senza pretese scenografiche. Avrebbe dovuto eiaculare un fiotto di luce, un orgasmo di fotoni sparato in cielo. Iniziò così la mia brevissima dissidenza.

La mia condizione privilegiata mi consentiva di agire quasi indisturbato. Quasi. Mi recai personalmente alle cave di Carrara a scegliere il marmo. Un blocco unico, certo, come faceva il dio Buonarroti, alto oltre tre metri e lungo circa un metro e mezzo per lato. Una volta scolpiti membro e testicoli avrei praticato un canale che consentisse il passaggio del fascio di luce emesso da un potente faro fissato a una lastra di acciaio, la stessa che avrei usato come base per la scultura. La sfida consisteva nel piazzare il marmo e un gruppo elettrogeno per fornire luce davanti al Palazzo dell'Assemblea dei Genitori Alfa, organismo formato esclusivamente da cittadini di sesso maschile cui spetta ogni decisione in materia di pianificazione delle nascite. L'azione clandestina sarebbe dovuta avvenire a notte fonda ovviamente.


Rimase tutto sulla carta. Appena giunse al mio studio, il materiale fu sequestrato. Quelli che comandano furono informati dal personale delle cave. Tecnicamente non fu delazione, seguirono con zelo un protocollo. Umanamente fu infamia. A mettermi in croce bastarono i disegni. A piantare i chiodi in profondità furono le parole. Avevo infatti già dato un titolo all'opera: "Distopia? Col cazzo!". Faceva tanto ribellione colorata, mi piaceva. Un anziano sorvegliante mi ha riferito che lo storico dell'arte del potere, sempre lo stesso, all'epoca dei fatti definì argutamente la mia opera abortita "pietra dello scandalo". Dissociandosene a gran voce ovviamente.



E così eccomi qui, ora, con una bottiglia di rum in una mano e una candela d'accensione nell'altra. 


Il vetro temperato s’infrangerà.

Fra poco poserò la bottiglia e raccoglierò i fogli impilati sul pavimento. Una risma da cento, su tutti la stessa frase in stampatello: "Piove Dissenso". Il mio messaggio al mondo di sotto.

 Mi sento bene. 

L'alcol sta cominciando a fare effetto.
 Sento il bisogno di orinare ma devo trattenermi. 

Ho già vuotato mezza bottiglia. 


Altri due sorsi.

Questione di istanti.
L'età non mi ha rubato la forza; i muscoli si ricordano bene di quando lavoravo di mazzuolo e scalpello. Anche il superuomo Michelangelo scrisse che scolpire lo aiutava a mantenere il corpo in salute. 
Allungo il braccio destro sopra la testa. Lo piego ad angolo retto.

Adesso.


La frustata squarcia il silenzio. 

Veloce, col piede destro, forzo la ragnatela di cristalli sbriciolati. L'aria e la vita m’investono assieme alla colonna sonora ovattata della città. Tantissime biciclette. Pochissime auto elettriche: le guidano i poteri intermedi. Andando più su le cose cambiano radicalmente. Le massime cariche il dogma della sostenibilità lo calpestano allegramente. Le loro mani guantate amano stringere volanti vintage. Sfilate di cilindri assetati di benzina. Dispongono anche di circuiti riservati, dove lanciano a tutta velocità i loro bolidi scintillanti di cromature. Gare segretissime. Andavo spesso a vederle. Potevo. Amavo le automobili sportive. Le amo ancora.

Slaccio i calzoni. 

Contemporaneamente lascio precipitare la risma di A4. La vedo squinternarsi, guardo le parole planare, ebbre come me, in tutte le direzioni.


PIOVE DISSENSO. PIOVE DISSENSO. PIOVE DISSENSO.

Piove perché sto orinando dalla mia prigione al trentasettesimo piano sopra un mondo sbagliato. 



Arrivano. I miei carcerieri arrivano.

L'armeggiare convulso di serrature e chiavistelli non mi tocca. Li stavo aspettando.
 Erompo in una risata scema, alcolica. 
Resto lì a guardare il cielo, a respirarlo. Sarà l'ultima volta.


Poi l'incantesimo.

Entra lieve nel mio campo visivo un prodigio. Vedo un neonato fluttuare leggero, leggerissimo, quasi etereo. È appeso con le mani a un palloncino bianco. È un'allucinazione, lo so, ma voglio che sia la mia illuminazione.


Piango. 
 

Quattro braccia mi afferrano.
 Di colpo mi ritrovo in bocca la polvere del pavimento.

Sa di sangue, ho le labbra rotte.

Finirò nei cubicoli dei detenuti di rango inferiore, ma non m'interessa. Sono stato un uomo da poco, merito di finire i miei giorni in basso. 

Non me ne frega più un cazzo. Mentre pisciavo sul male, ho avuto una visione di beatitudine. Non conta se l'ho avuta perché sono ubriaco o perché dopo tanti anni chiuso qui sono diventato pazzo. Non m'importa. 
È la mente che vede. Gli occhi riescono solo a guardare.


Nota dell'autore



La sera dell'undici settembre 2041 quattro uomini armati in uniforme fecero irruzione nell'abitazione dell'artista clandestino noto come “Zero”. Le telecamere lo avevano colto in flagrante, il mattino dello stesso giorno, nell'atto di liberare dal cassone coperto di un van cinquecento palloncini bianchi, gonfiati con l'elio, ai quali erano appese altrettante sagome di carta raffiguranti un neonato. Punito con l'amputazione del dito medio della mano destra, sta scontando dieci di anni in una cella al quarto piano dell'Istituto di Rieducazione per i Traditori del Giusto. 

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venerdì 31 ottobre 2014

La verità è nel frontespizio

Racconto di Paolo Parigi





Nella stanza gremita la voce suona ovattata. Qualcuno fa cenno di alzare il volume. Pausa. Il microfono fischia. Dopo alcuni istanti la lettura riprende.

“… sono sveglio da ore. Ho passato le ultime notti quasi in bianco. Sono stanco, ma ho deciso che attenderò l’ora del check-out impiegando il tempo in modo costruttivo. 
Non faccio nulla da tre giorni. Me ne sono stato tutto il tempo alla finestra a guardare i capitelli delle colonne di un portico, cimentandomi nell'attribuirli a un periodo preciso. XI° secolo, sono giunto a questa conclusione. Sbozzati in modo semplificato, con i dettagli sfuggenti, come il ricordo di un sogno subito dopo il risveglio: la memoria del marmo antico che si fa sempre più vaga nella materia stilizzata dell'epoca successiva. 
Finora mi sono staccato dai vetri di questa stanza solo per scendere a prendere il kebab, due volte al giorno. Mi piace il mix di città europea e libri sul Medio Oriente che erompe da quei sapori avvolti nella carta oleata. A dire il vero ho interrotto a tratti la mia fissità sull'esterno anche per sdraiarmi sul pavimento a fare addominali; come se il tentativo di dotarsi di un carapace facesse curriculum. Ora devo darmi da fare, affrettarmi. Mi viene in mente il paradosso di Achille e la tartaruga: postula l'inutilità della velocità; lo fa in modo arguto ma non so se mi piace. Ho sempre avuto il passo svelto. Forse l'ho anche ostentato. Fare incontrare in uno spazio-tempo indefinito Zenone di Elea e Marinetti sarebbe una bella idea per un racconto di genere fantastico.

Dinamismo, prontezza. Devo darmi una mossa, reagire. Stilerò a memoria l’elenco delle cose alle quali ho lavorato in questi anni. Il blocco appunti con il logo dell’hotel: mi ha ispirato lui il buon proposito. Gli sto eccezionalmente dedicando l’inchiostro della mia biro di marca, quella che non uso quasi mai, forse per non mancarle di rispetto, perché è un regalo, prezioso e commovente come tutti i regali.

Non so con cosa cominciare. La campagna stampa di quelle attrezzature per il fitness? La campagna affissioni di quel latte alta qualità? La storia del divano in formato tascabile di quella marca di imbottiti? Le due o tre brochure di quegli scooter? La campagna affissioni contro alcool, fumo, guida pericolosa, droga e cos’altro non ricordo? Gli script di quella serie di spot? Un testo così, pieno di punti interrogativi e aggettivi dimostrativi, di norma finirebbe dritto nel cestino del pc.
Dovrò ricordarmi di inserire nell’elenco anche le cose fatte per il web, sempre che riesca a non fare confusione con nomi e domini. Importa poco comunque, la lista è più che altro per me; il mio scopo è riempire il vuoto del foglio e della vita diventata all’improvviso improduttiva.

Ora inizio, ho già perso troppo tempo; finora su questo blocco ho scritto tutt’altro, cioè quello che sto scrivendo ora. Non manca molto al momento in cui dovrò lasciare la stanza. Non ho denaro sufficiente per starci ancora. Sono chiuso qui da tre giorni. Sono arrivato al mattino. Ho fatto tutto come se dovessi andare al lavoro. Solo che il lavoro non c'era più. Allora sono entrato qui.
Non ho idea di cosa accadrà poi. Ritornare a casa ora non mi aiuterebbe. Non ho dimenticato il sapore amaro, sebbene amico, delle pillole della felicità. Non so cosa farò né dove andrò nei prossimi giorni. Sto provando a raccontare a me stesso che è una forma di libertà, ma non ci credo.”


Lo scrittore solleva il viso dalle pagine e rivolge lo sguardo al pubblico. Applauso.
 

Marco è in piedi, finalmente è arrivato il suo turno; era l’ultimo della fila. È trascorsa circa un’ora da quando l’autore ha terminato la lettura. Ora è seduto di fronte, dietro un banchetto. Marco gli si rivolge sorridendo. Vuole apparirgli quasi complice: – L’elenco non l’hai nemmeno iniziato… mi sa che è stato meglio così, vero?
– Infatti. Ho continuato a mettere nero su bianco il flusso di coscienza. Il blocco appunti dell’hotel avrà avuto almeno cinquanta fogli. Ho scritto nella hall fino a quando mi hanno invitato ad andarmene. Ho continuato in auto, in un parcheggio non a pagamento. Ho dormito sul sedile quattro notti. Trascorrevo le ore di luce a scrivere, appoggiando i fogli sul volante. Ogni tanto partiva per sbaglio un colpo di clacson… facevo dei giretti lì intorno per sgranchirmi le gambe. Un vigile urbano un pomeriggio mi ha chiesto se era tutto a posto. Un paio di volte al giorno andavo fino al bar più vicino per mangiare qualcosa e pisciare… concedimi il termine, tanto siamo rimasti soli. Il grosso del manoscritto l’ho buttato giù così.
– Incredibile. E scrivendo in quella situazione di disagio sei riuscito a trasformare in romanzo, con lucidità e realismo, la tua sconfitta… posso chiamarla così vero? Non dev’essere stato facile.
– Già. A proposito, ti chiami?
– Marco.
– Marco, visto che hai avuto la pazienza di aspettare così tanto ti faccio una dedica speciale… è un po’ più lunga del normale…  ho quasi finito… ecco fatto.
– Grazie! Se terrai un altro reading da queste parti passerò senz’altro.
– Chissà. Grazie a te Marco. Ciao.

Marco apre il libro; va subito al frontespizio. Sono passate due ore da quando è uscito dalla libreria. Non ha voluto leggere la dedica, preferisce assaporarsela con calma ora che è a casa.

È vero, per essere una dedica è insolitamente lunga. La calligrafia è chiara. La penna a sfera recita:

“Marco, devo confessartelo, ho raccontato un bel po’ di bugie, sia nel libro sia a te. A dispetto di quello che dice la quarta di copertina c’è ben poco di autobiografico in quello che ho scritto. E la storia dei giorni trascorsi a scrivere e dormire in auto l’ho inventata lì per lì, mentre parlavamo poco fa. Forse l’ho fatto per scaramanzia. Scusami. Un abbraccio.”.





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venerdì 26 settembre 2014

Letteralmente un equivoco

Racconto di Paolo Parigi


Davanti a me la porta della vettura di seconda classe. Alle mie spalle altri pendolari con lo sguardo fisso sul termine della giornata lavorativa. Odore di frenata. Ultimi cigolii. Attendo il segnale di sbloccaggio del meccanismo di apertura. Non è un servizio al passeggero, è il "tick" quasi impercettibile che solo il popolo dei binari sa riconoscere. Due secondi e arriva. Tiro la maniglia. Scatta la ghigliottina orizzontale, salto giù. Volo verso il sottopassaggio che sbuca nel parcheggio sotterraneo. 

Quella frase, devo memorizzare quella frase. 

L’ho sbirciata sul quotidiano che stava leggendo il tipo seduto accanto a me. L’occhiello di un articolo sulla pagina culturale. “Le parole sono simboli di ricordi condivisi". No, era più elaborata. “Le parole sono simboli che postulano un ricordo condiviso”: la formulazione esatta era questa; un arido manuale di web writing la riporterebbe come esempio da non seguire.
Da titolo e sottotitolo ho capito che l’articolo parlava di un racconto di Jorge Luis Borges. La frase, virgolettata, evidentemente compariva come citazione. 

Mentre percorro i due piani di rampa in salita la ripeto altre volte sottovoce. Devo imprimerla nella memoria. La ripeto ancora. Il custode del parcheggio mi guarda perplesso. Pensa che io stia parlando da solo. Non sbaglia di molto. 
Ho tre chilometri abbondanti per continuare a recitare il mantra. Devo cercare di conservare la frase intatta, prima arrivo a casa meglio è. 
La sbarra si alza, sgommo.

La porta non si è ancora chiusa alle mie spalle che ho già acceso il pc. 
Fatto. 
Ora che ho fissato la frase nel disco rigido posso pensare. 
Voglio usare quelle parole come punto di partenza per scrivere qualcosa. Ancora non so cosa. Non so mai quello che scriverò prima di iniziare a farlo. 
Ho bisogno di musica. Apro il mobile dei vecchi 33 giri; un dorso arancio intenso attira il mio sguardo. Mi ritrovo in mano Low di David Bowie. Capolavoro di modernità. Non lo ascolto da anni. 
Adagio il vinile sulla gomma del piatto. Lato A. Parte Speed of Life. Al produttore Tony Visconti dovrebbero fare un monumento anche solo per come ha reinventato il suono del rullante: frequenze piovute direttamente dal cosmo.
Mentre rigiro la copertina fra le dita l’involucro interno plana sul pavimento. Nel raccoglierlo si capovolge; sulla carta ingiallita rivedo qualcosa che avevo dimenticato: due parole tracciate in corsivo con la biro. Calligrafia svolazzante. Faccio un rapido calcolo. Trentatre anni fa. Un ricordo di Emanuela. Detta Ema.

Non riesco a staccare gli occhi da quelle parole. Mi fanno effetto. Assecondano una vanità tardiva. 
Parole come ricordi condivisi. Era destino che dovesse accadere oggi. Non posso non dirglielo. Emanuela è tra i miei contatti di Facebook; alcuni anni fa ci siamo rivisti di sfuggita. Impossibile che non si ricordi di quel doppio regalo, il disco e la frase.

Rieccomi sui tasti. Vado su “invia un nuovo messaggio”. No, voglio fare di più, voglio che vedano tutti. Scrivo un post sul mio wall e la taggo. Voglio che la notifica le giunga anche via e-mail. Niente colpi a vuoto.
“Incredibile. Ho ritrovato dopo secoli le parole di Emanuela Merz su Low di David Bowie.”
 

Ci mette poco a rispondere. Le vie della rete sono infinite.
“Ciao! Ecco dov’era finito quell’album. L’ho cercato un sacco di volte senza trovarlo! Be’, ormai puoi tenerlo  :-)”
Delusione. In condivisione.
Non ha capito di cosa sto parlando, non ricorda. Speed of Life: troppa distanza temporale fra i noi di allora e troppa vicinanza virtuale fra i noi di oggi. 

Per quanto mi riguarda Low non merita più il giradischi. Faccio per riconsegnarlo all’oblio del mobile, ma contemporaneamente mi cade l’occhio su Alladin Sane. Non esce dal suo involucro da decenni. Una ristampa in edizione economica, come l'altro: eravamo tutti figli di mondi senza pretese, la benzina che ha alimentato la nostra corsa alla conquista dell'immaginazione era quella consapevolezza. Lo è ancora. Un errore non averlo più ascoltato. Altro regalo di Emanuela. Io ricordo bene. Io. 

Faccio calare la puntina sull'ultima traccia del lato A. Cracked Actor, ricordo che spaccava. Guardo i titoli ruotare sul tondo rosso marchiato RCA al centro del vinile. 
Non ci metto troppo ad accorgermi che assieme alle file di caratteri tipografici gira una scritta a biro. Svolazzante. Di suo pugno, per forza. Mai notata prima, proprio come l'altra. Quando sei teenager guardi al cielo, se sfugge un dettaglio è perduto per sempre.
Fermo il giradischi. Avvicino lo sguardo. 
Sono le stesse due parole, quelle che un giorno significano tutto e l'indomani niente. Un altro “ti amo”. 

Forse no. 
Guardo meglio. 
La t minuscola in realtà è una d minuscola; la a minuscola  una e minuscola; la o minuscola una a minuscola. 
Calligrafia svolazzante, sovraelaborata in modo quasi infantile. Ingannevole. 
Un equivoco. Letteralmente un equivoco.
È scritto “di ema”, non "ti amo".
Nell’altro album è scritta la stessa cosa. Inutile verificare.
Emanuela contrassegnava i suoi 33 giri così. Mai accorto. Quando sei poco più che un bambino contano solo l'azione e l'istante. 

Detriti affettivi incrostatisi qui, sedimenti del caso o della dimenticanza, non regali. Sono io in errore, non lei. Gli anni hanno plasmato la mia memoria in modo arbitrario, hanno scolpito un simulacro di ricordi sbilenco. 
“Le parole sono simboli che postulano un ricordo condiviso”. La frase del visionario erudito di Buenos Aires è bella, evocativa, ma non è del tutto vera.
Riapro il portatile, il foglio di testo è ancora lì. Cancello e riscrivo: “Le parole sono simboli che postulano un equivoco condiviso su Facebook”. La posterò sul mio specchio disegnato da Zuckerberg sperando in qualche pollice all’insù; un metadone che sostituisca la dose quotidiana di like prima o poi lo inventeranno.


Tolgo dal piatto Alladin Sane e rimetto Low: se lo merita eccome il giradischi. Voglio riascoltare subito Speed of Life. L’unica verità è in quel titolo.

 
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venerdì 19 settembre 2014

La frase che ti cambia la vita

Racconto di Paolo Parigi

 


Il fardello. Quello delle bottiglie. Si chiama così l'involucro di cellophane che le avvolge. Lo sapeva? Fino a quando non ci ho avuto a che fare per lavoro non lo sapevo. È da allora che mi porto dentro quel fardello, quel peso. E tutto per non essere riuscito a vedere scritta la mia frase sulla confezione da sei di una bibita. 
E dire che al cliente era piaciuta. Ci avevo lavorato con passione, assetato di consenso. Le corsie illuminate della grande distribuzione dovevano essere il mio palcoscenico. Lo desideravo, era così che avevo deciso. Avevo ideato almeno cinquanta proposte, cesellandole accuratamente con i tasti del pc. Dal mucchio una, la migliore a giudizio del cliente. E anche mio. Il testo della mia pièce prevedeva poche parole, recitate da quei pacchi di bottiglie da 150 cl e 75 cl, attori muti ma eloquenti grazie alla mia immaginazione.
 

Sto parlando di tanto tempo fa. Ricordo bene il layout del progetto grafico sui monitor dei colleghi. Mi piazzavo silenzioso dietro le loro scrivanie per ammirare la mia frase vestita di caratteri gioiosi nuotare fra flutti frizzanti e frutti polposi. Pregustavo il momento in cui percorrendo la corsia delle bevande l'avrei incontrata. Avrei voluto che accadesse proprio mentre una donna si accingeva a prendere il fardello di bottiglie per caricarlo nel carrello. L'avrei anticipata premuroso dicendole: "Faccio io se permette, pesa un po'...". E avrei aggiunto: "Che combinazione! Ha scelto un prodotto che conosco bene... pensi che questa frase qui è mia...". Mi figuravo la scena da dietro. Il mio occhio interiore le modellava un'anatomia degna di essere inquadrata.
 

Mi porto dentro quel fardello, sì. Un gran peso. Non esagero. Su quella pellicola di plastica che avrebbe dovuto eternare le mie parole al cospetto del mondo dei consumi di massa avevo puntato molto. Avrebbe dovuto essere il trampolino con il quale proiettarmi nel firmamento di quelli che ce la stavano facendo. "Ah ma allora è tua quella frase? Dai?": le sentivo già le voci che mi avrebbero accarezzato l'ego, spalancandomi contemporaneamente, finalmente, i cancelli della reggia dove pensavo si dessero convegno quelli pagati per farsi venire le idee. Ormai era stato tutto approvato, era tutto pronto: un sorso di successo in anticipo potevo concedermelo. Il mio trionfo di cellophane era ormai una certezza, si trattava solo di attendere che la merce arrivasse sugli scaffali.
 

E invece no. Un giorno, camminando nella corsia delle bibite, proprio in questa, dove siamo ora, lo vedo. Lì, guardi, proprio lì. Vedo il fardello da sei bottiglie. Bello grande, quello per il formato da litro e mezzo. Ma mica ci trovo la mia frase. Giro e rigiro il pacco, niente, non c'è. Tolta, cancellata. Il nome del prodotto, i colori, le immagini: non mancava nulla, c'era tutto, tranne le mie parole. Il giorno dopo al lavoro avrei preteso delle spiegazioni. Le ebbi, ma talmente banali da ferirmi. Qualcuno, nella fase esecutiva del lavoro, si era dimenticato di inserire la mia frase. Una svista. Subito perdonata dal cliente. "In fin dei conti non era così importante" disse; "forse nel packaging era addirittura superflua" aggiunse. "Comunque anche secondo me era in più" concluse il collega che mi aveva appena riferito il fatto. 

Poi ricordo solo tante braccia che mi strattonavano via. Sarà stato il quarto pugno che tiravo in vita mia. Era accaduto solo nei momenti di rabbia cieca. Mi manca la freddezza per riuscire a far male a qualcuno. Così male poi.  Era finito a terra. Aveva battuto la testa. Mesi di riabilitazione prima di guarire, di recuperare completamente. Non proprio completamente. Quando ci penso vorrei scomparire. Soffro. Il mio fardello è questo. Me lo merito.
 

Riuscii a patteggiare. Mi fu concesso. Mi portarono via quel poco che avevo e mi indebitai per provvedere al resto. L'avvocato disse che mi era andata di lusso. Disse anche che la galera ero riuscito a evitarla solo perché il mio pianto di dispiacere davanti al giudice era sembrato sincero. Era sincero, non "era sembrato sincero", testa di cazzo. 
Mi cacciarono dal lavoro. Giustamente. 
Quel prodotto in compenso c'è ancora. Quello del fardello dico. Eccolo, vede? È proprio questo. La grafica è rimasta praticamente tale e quale, salvo un leggerissimo restyling. La mia frase avrebbe dovuto occupare questa parte di involucro. 
Uno con cui avevo lavorato, incrociato per strada, mi ha detto che nella nuova versione del fardello l'avrebbero inserita. Sembrava di fretta e mi guardava in modo strano, come se avesse paura. È successo alcuni mesi fa. Io non mi fido, per questo vengo qui tutti i giorni a controllare il fardello. Capito il mio duplice fardello? Capito il doppio senso? 

Ero bravo nei giochi di parole. Peccato non poterli più fare. Ogni tanto ci provo. Gli autisti degli autobus all'inizio mi ascoltavano, ora non mi badano più. 
Sto tutto il giorno sui mezzi pubblici. Giro tutti i supermercati, mi spingo fino ai discount più periferici: non tutte le grandi distribuzioni tengono gli stessi prodotti. Se non trovo il nuovo fardello con la mia vecchia frase in uno, magari lo trovo in un altro. Lo sgombro in olio d'oliva comunque lo compro solo qui. Quello della marca privata di questa catena, perché costa meno ed è di buona qualità. Mangio solo sgombro. Fa bene e costa poco. Oggi è in offerta speciale, ne ho prese dieci scatole. E banane. Hanno il potassio. Non serve il frigo. Li tengo nell'armadietto del dormitorio. 
La mia frase doveva essere lì, su quel fardello. 
Ah, giusto, prima lei mi ha chiesto cosa diceva. Non ricordo, l'ho scritta una vita fa.

 

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mercoledì 16 luglio 2014

Il bambino del giovedì

Racconto di Paolo Parigi


Giovedì 9 novembre 1982
L'uomo che vorrei esiste. Tu lo sai. È elegante, riservato, in ordine. Ha gli occhi neri. Oggi era seduto davanti a me. L’avevo guardato a lungo giovedì scorso. Osservo molto le persone durante i miei viaggi quotidiani in treno. Lo faccio senza che se ne accorgano. Lo sto dicendo per la prima volta a te diario. Chissà se anche lui ha fatto come me, se mi ha guardato facendo in modo che io non lo scoprissi. 
Lo incontrava all'andata. Quel treno lui lo prendeva una volta la settimana, di giovedì, sempre alla stessa ora. Saliva alla prima fermata. Era il suo aspetto, sì, il suo aspetto, ad attirarla.

Giovedì 30 novembre 1982
È il quarto giovedì che lo incontro. L'ho guardato bene. Porta sempre abiti eleganti. Ha i capelli folti, neri. Da uomo che mantiene ciò che promette. Sì, diario, non intendo riaprire la questione; di promesse infrante ti ho parlato ormai troppe volte. Voglio però dirti una cosa: ci sono dettagli che rivelano il modo di essere di una persona. Di lui, di quest'uomo che vedo in treno, credo di sapere già molto grazie ai particolari. Parlo di come si veste. A un'altra magari darebbe fastidio il fatto che indossa sempre le stesse cose. A me no. Significa che sa cosa vuole. Su queste cose io non sbaglio mai. 
Ormai aveva capito molto di lui. Per esempio che indossava sempre le stesse tre paia di calzoni. Che preferiva le camicie scure e gli abiti con la giacca a due bottoni. Credeva di aver capito anche molto altro. Pensava di avere un sesto senso per i destini luminosi. 

Giovedì, 7 dicembre 1982
Mi piace stare seduta vicino a lui. Non credo si sia ancora accorto che lo osservo. Appena alza lo sguardo, faccio finta di niente. Quando è seduto davanti a me, per non rischiare di farmi scoprire, punto la sua immagine riflessa sul finestrino. Funziona. Crede che io stia guardando fuori. Oggi è successa una cosa bella. Per me almeno. Ha rivolto gli occhi verso l’esterno anche lui ed e le nostre immagini riflesse si sono imbattute l’una nell’altra; le nostre pupille si sono toccate. Sono sicura che per un momento mi abbia fissata. Mi è parso di arrossire, ma se anche fosse stato, non si è notato: un'immagine restituita da un vetro non può far trapelare le emozioni ma può dire molte cose, coglie la persona nella sua verità. Io penso di essere spontanea. Qui e ora, diario, sto scrivendo quello che provo con sincerità, credimi, ma lo sai, perché non ti ho mai mentito.
Capitava un po' per caso e un po' no che si trovassero sempre vicini. Anche l'uno di fronte all'altra, oppure l'uno accanto a un finestrino e l'altra accanto a quello speculare, sul lato opposto della vettura, comunque in modo da potersi osservare, non direttamente, approfittando dello sguardo abbassato sulla lettura o degli occhi rivolti allo scorrere del panorama di vetro sporco. 

Giovedì, 13 gennaio 1983
Oggi ho preso coraggio. Era seduto di fronte a me. A un certo punto gli ho chiesto come aveva trascorso le feste. Mi ha risposto che le aveva passate bene e mi ha ringraziato. Però non ha ricambiato la domanda. Oggi comunque è stato un giovedì importante perché per la prima volta ci siamo rivolti la parola. Sono sicura che lo faremo ancora. Diario, che mi piace scrivere lo hai capito, ma forse non sai che anche parlare non mi dispiace per niente. Il punto è trovare persone con cui riuscire a farlo come piace a me. Qualcosa mi dice che io e lui, più avanti, parleremo di molte cose. Me lo sento.
Inevitabile che dopo un certo numero di volte avessero cominciato a uscire delle parole. All'inizio frasi di circostanza. Dopo un certo numero di viaggi vere e proprie confidenze. Però ancora non aveva saputo a quale fermata successiva alla propria lui scendesse. 

Giovedì, 16 marzo 1983
Ormai parlo. Di un po' di tutto. Anche del mio lavoro. All'inizio non volevo, ma lui non è superficiale come tutti gli altri, a lui forse interessa quello che faccio. Mi ascolta quando gli parlo dei dischi di David Bowie. Gli ho detto quante volte ho già ascoltato l'ultimo, "Let's dance". Parlo tanto. Forse troppo? Per questo lui parla poco o niente? Dovrò stare attenta a non esagerare. Non vorrei che cominciasse a considerarmi una rompiscatole. 
Tre quarti d'ora di viaggio lei e un altro po’, mai saputo quanto, lui. Lei scendeva prima, ma fino a quel momento parole, parole, parole. I suoi giovedì dalle sette e un quarto alle otto del mattino, tempo del viaggio per recarsi al lavoro, andavano così. Erano cominciati d'inverno, al buio, ed erano continuati fino a primavera, lucenti di sole giovane e verdi di campi a interrompere il flusso di capannoni industriali e villette fai da te. Le piaceva, con quel suo sguardo nero profondo che le comunicava sicurezza e compiacimento. Sì, un uomo sicuro di sé, quello che tutte le donne vorrebbero. Alto, educato, borsa di cuoio. Mai saputo però cosa facesse. Chissà se lui, mentre parlavano, mentre lei parlava anzi – perché lui più che altro ascoltava – la trovava attraente. Comunque c'era la testa. La sua era di un castano comune ma dentro c'era il grigio, quello della materia. Poteva parlare di qualunque cosa: una rara edizione di uno scritto del '500? Un prezioso incunabolo conservato presso quella certa fondazione? Le mille e una notte nella traduzione di Mardrus? I versi dei Carmina Burana? I film di Renoir? Bastava scegliere. Anche di Bowie, il suo cantante preferito. Sapeva tutto di Angela Bowie, la prima moglie.

Giovedì, 14 Aprile 1983
Sono già quattro giovedì che gli racconto di me. Lui mi ascolta. Non parla molto, ma mi ascolta. E mi guarda le mani. Gli piaccio? Lui a me piace. Altre volte, di altri uomini, diario, ti ho detto che mi piacevano. Sì, ma non così tanto. Significherà qualcosa o no? 
Rotto il ghiaccio, diventati quasi intimi, restava da capire se ciò di cui lei gli parlava lo interessasse davvero o solo per finta, per una forma di gentilezza. Anche perché, a parte qualche domanda di cortesia, a parlare era sempre lei. Solo lei. Quei denti bianchi, così regolari. E l'orologio elegante. E le scarpe, mai impolverate o infangate. Mai niente fuori posto, mai spettinati quei capelli neri. Non parlava, però la guardava. Osservava le sue mani. Dita lunghe, unghie curate. Le vene sul dorso, visibili, ma non troppo in rilievo. Sul palmo una linea dell'amore lunga e regolare, senza incidenti di percorso, forse per quello non le accadeva sentimentalmente mai nulla. Gliele avesse anche solo sfiorate quelle mani, quando capitava fossero seduti l'uno accanto all'altra, separati dal bracciolo di finta pelle scarnificata dalla noia dei pendolari, che partono al mattino pensando già al treno della sera. Il rientro. Da sola. Non aveva mai capito a che ora lui ritornasse. E da dove. Forse con il locale immediatamente successivo o magari con il diretto un'ora dopo. Si chiamavano ancora così i treni. 

Giovedì, 21 aprile 1983
È successo. Un po' mi piace e un po' no. Non pensavo che avrei potuto farlo così. Non voglio ricordarlo quel posto. Voglio solo che arrivi giovedì prossimo per vederlo, per parlargli. Sono contenta. Anche se lui è stato un po' strano. Sono contenta, voglio che stiamo insieme. Giovedì cominceremo a stare insieme, io e lui.
La mattina del giovedì successivo lui le aveva preso la mano, approfittando del fatto che lei l'aveva posata sulla mensola sotto il finestrino. Stavano seduti l'uno di fronte all'altra e lei, la mano che con garbo teneva la sua, l'aveva stretta, forte, con l'intensità di chi ha atteso quel momento da tanto. Si erano guardati negli occhi. Poi lui si era alzato, sempre tenendole la mano: un invito a seguirla. Libero. Spazio angusto, sapone da quattro soldi. Profumo chimico sull'odore dell'umanità di corsa. Il desiderio guarda fisso in una direzione, esclude tutto il resto. La levetta scatta. Sono al sicuro. Il rumore lì è ancora più forte, amplificato dal metallo forgiato per sopportare la quotidianità degli estranei. Loro due in piedi, inchiodati contro la porta. Più presa lei. Lui distaccato; sempre con garbo, anche lì con garbo. Rapido in quel treno diretto che aveva cominciato a frenare sul più bello. Prossima fermata quella di lei. Ora di scendere. Comunque non aveva ancora capito in quale stazione successiva alla sua scendesse lui.

Giovedì, 28 aprile 1983
Oggi non c'era. Forse ha avuto un contrattempo. O è partito prima. O dopo. Una settimana fino a giovedì prossimo. Lui ci sarà. Una persona come lui non scompare senza dire niente. Non mi va più di scrivere. Vaffanculo. Ciao diario.
Mai era salita in treno così carica. Dieci minuti, la prima fermata, e sarebbe salito anche lui. Sul marciapiede però non lo vide. Che si trovasse qualche vettura più avanti? Ma sì, ora si sarebbe aperta la porta che collega il vano di entrata con la zona dei posti a sedere e l'avrebbe visto arrivare, come ogni giovedì. Non si aprì niente. 

Giovedì, 5 maggio 1983
Oggi c'era. Da oggi per me non c'è più.
Scesi i gradini del predellino, dopo aver percorso qualche metro sul marciapiede del binario numero sei si girò, per cercare di capire ancora una volta se lui fosse sul treno. Due Giovedì senza ormai. No, non poteva esserci, se ci fosse stato, sarebbe stato in coda, come sempre, dove immancabilmente saliva lei, dove ogni giovedì si erano incontrati. E dove anche quel giorno non c'era. Mentre stava per scendere le scale del sottopassaggio, nonostante il riflesso del sole sul vetro del finestrino di quella vettura, centrale, non la loro, fosse abbagliante, lo riconobbe. Era seduto accanto a un'altra. E parlava. Il labiale vomitava un sacco di parole, troppe.

Giovedì, 16 giugno 1983
Ho una vita dentro, ma non pensavo che mi sarei sentita così. Banale. Causa ed effetto. Quel posto voglio dimenticarlo, non voglio ricordare che è accaduto lì.
No, nessun pentimento, il bambino del giovedì sarebbe rimasto con lei, solo con lei. Era sicura che non avrebbe avuto nulla di lui. Ne era certa. Se lo sentiva. Su certe cose non si sbagliava mai

*

Angela si alza dalla sedia. Scioglie l'elastico che le lega in una coda i capelli neri. Non ha mai conosciuto suo padre, ma gioca a immaginare che la storia sia quella. Sa solo che in quel diario trovato in cantina, sua madre, tutti i giovedì, per circa sei mesi, scrisse di un uomo incontrato in treno. Tante parole, ma senza dire niente. Un nulla attorno al quale lei aveva appena messo delle parole. 
"Solo per te non mi rammarico di essere il bambino del giovedì": questa la frase che vorrebbe dirle, se ci fosse ancora. Non sa in quale album di Bowie si trovi la canzone sul bambino del giovedì. Né trilogia berlinese né periodo glam. Suoni diversi, di fine secolo. Un momento più recente. Sua madre avrebbe avuto la risposta. Del Thin White Duke sapeva tutto. 


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