venerdì 26 settembre 2014

Letteralmente un equivoco

Racconto di Paolo Parigi


Davanti a me la porta della vettura di seconda classe. Alle mie spalle altri pendolari con lo sguardo fisso sul termine della giornata lavorativa. Odore di frenata. Ultimi cigolii. Attendo il segnale di sbloccaggio del meccanismo di apertura. Non è un servizio al passeggero, è il "tick" quasi impercettibile che solo il popolo dei binari sa riconoscere. Due secondi e arriva. Tiro la maniglia. Scatta la ghigliottina orizzontale, salto giù. Volo verso il sottopassaggio che sbuca nel parcheggio sotterraneo. 

Quella frase, devo memorizzare quella frase. 

L’ho sbirciata sul quotidiano che stava leggendo il tipo seduto accanto a me. L’occhiello di un articolo sulla pagina culturale. “Le parole sono simboli di ricordi condivisi". No, era più elaborata. “Le parole sono simboli che postulano un ricordo condiviso”: la formulazione esatta era questa; un arido manuale di web writing la riporterebbe come esempio da non seguire.
Da titolo e sottotitolo ho capito che l’articolo parlava di un racconto di Jorge Luis Borges. La frase, virgolettata, evidentemente compariva come citazione. 

Mentre percorro i due piani di rampa in salita la ripeto altre volte sottovoce. Devo imprimerla nella memoria. La ripeto ancora. Il custode del parcheggio mi guarda perplesso. Pensa che io stia parlando da solo. Non sbaglia di molto. 
Ho tre chilometri abbondanti per continuare a recitare il mantra. Devo cercare di conservare la frase intatta, prima arrivo a casa meglio è. 
La sbarra si alza, sgommo.

La porta non si è ancora chiusa alle mie spalle che ho già acceso il pc. 
Fatto. 
Ora che ho fissato la frase nel disco rigido posso pensare. 
Voglio usare quelle parole come punto di partenza per scrivere qualcosa. Ancora non so cosa. Non so mai quello che scriverò prima di iniziare a farlo. 
Ho bisogno di musica. Apro il mobile dei vecchi 33 giri; un dorso arancio intenso attira il mio sguardo. Mi ritrovo in mano Low di David Bowie. Capolavoro di modernità. Non lo ascolto da anni. 
Adagio il vinile sulla gomma del piatto. Lato A. Parte Speed of Life. Al produttore Tony Visconti dovrebbero fare un monumento anche solo per come ha reinventato il suono del rullante: frequenze piovute direttamente dal cosmo.
Mentre rigiro la copertina fra le dita l’involucro interno plana sul pavimento. Nel raccoglierlo si capovolge; sulla carta ingiallita rivedo qualcosa che avevo dimenticato: due parole tracciate in corsivo con la biro. Calligrafia svolazzante. Faccio un rapido calcolo. Trentatre anni fa. Un ricordo di Emanuela. Detta Ema.

Non riesco a staccare gli occhi da quelle parole. Mi fanno effetto. Assecondano una vanità tardiva. 
Parole come ricordi condivisi. Era destino che dovesse accadere oggi. Non posso non dirglielo. Emanuela è tra i miei contatti di Facebook; alcuni anni fa ci siamo rivisti di sfuggita. Impossibile che non si ricordi di quel doppio regalo, il disco e la frase.

Rieccomi sui tasti. Vado su “invia un nuovo messaggio”. No, voglio fare di più, voglio che vedano tutti. Scrivo un post sul mio wall e la taggo. Voglio che la notifica le giunga anche via e-mail. Niente colpi a vuoto.
“Incredibile. Ho ritrovato dopo secoli le parole di Emanuela Merz su Low di David Bowie.”
 

Ci mette poco a rispondere. Le vie della rete sono infinite.
“Ciao! Ecco dov’era finito quell’album. L’ho cercato un sacco di volte senza trovarlo! Be’, ormai puoi tenerlo  :-)”
Delusione. In condivisione.
Non ha capito di cosa sto parlando, non ricorda. Speed of Life: troppa distanza temporale fra i noi di allora e troppa vicinanza virtuale fra i noi di oggi. 

Per quanto mi riguarda Low non merita più il giradischi. Faccio per riconsegnarlo all’oblio del mobile, ma contemporaneamente mi cade l’occhio su Alladin Sane. Non esce dal suo involucro da decenni. Una ristampa in edizione economica, come l'altro: eravamo tutti figli di mondi senza pretese, la benzina che ha alimentato la nostra corsa alla conquista dell'immaginazione era quella consapevolezza. Lo è ancora. Un errore non averlo più ascoltato. Altro regalo di Emanuela. Io ricordo bene. Io. 

Faccio calare la puntina sull'ultima traccia del lato A. Cracked Actor, ricordo che spaccava. Guardo i titoli ruotare sul tondo rosso marchiato RCA al centro del vinile. 
Non ci metto troppo ad accorgermi che assieme alle file di caratteri tipografici gira una scritta a biro. Svolazzante. Di suo pugno, per forza. Mai notata prima, proprio come l'altra. Quando sei teenager guardi al cielo, se sfugge un dettaglio è perduto per sempre.
Fermo il giradischi. Avvicino lo sguardo. 
Sono le stesse due parole, quelle che un giorno significano tutto e l'indomani niente. Un altro “ti amo”. 

Forse no. 
Guardo meglio. 
La t minuscola in realtà è una d minuscola; la a minuscola  una e minuscola; la o minuscola una a minuscola. 
Calligrafia svolazzante, sovraelaborata in modo quasi infantile. Ingannevole. 
Un equivoco. Letteralmente un equivoco.
È scritto “di ema”, non "ti amo".
Nell’altro album è scritta la stessa cosa. Inutile verificare.
Emanuela contrassegnava i suoi 33 giri così. Mai accorto. Quando sei poco più che un bambino contano solo l'azione e l'istante. 

Detriti affettivi incrostatisi qui, sedimenti del caso o della dimenticanza, non regali. Sono io in errore, non lei. Gli anni hanno plasmato la mia memoria in modo arbitrario, hanno scolpito un simulacro di ricordi sbilenco. 
“Le parole sono simboli che postulano un ricordo condiviso”. La frase del visionario erudito di Buenos Aires è bella, evocativa, ma non è del tutto vera.
Riapro il portatile, il foglio di testo è ancora lì. Cancello e riscrivo: “Le parole sono simboli che postulano un equivoco condiviso su Facebook”. La posterò sul mio specchio disegnato da Zuckerberg sperando in qualche pollice all’insù; un metadone che sostituisca la dose quotidiana di like prima o poi lo inventeranno.


Tolgo dal piatto Alladin Sane e rimetto Low: se lo merita eccome il giradischi. Voglio riascoltare subito Speed of Life. L’unica verità è in quel titolo.

 
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