martedì 24 giugno 2014

Vedere l'etere

Racconto di Paolo Parigi




A minuti sarebbe arrivato il momento di andare in onda. Brani scelti da lui. Tra uno e l’altro parole, tante, forse troppe. Scritte e lette da lui. Al martedì sera dai microfoni di Alternative Antenna.
Jocko, abbreviazione di Jocko Homo, lo faceva tutte le settimane. Questo martedì però nelle sue parole ci sarebbe stato qualcosa di più: un messaggio rivolto a lei. Da spedirle in diretta. Si erano conosciuti lì. Pressapoco. Una telefonata di lei arrivata in regia, condivisa da lui con gli ascoltatori, un commento on air, su un brano appena concluso. Era successo durante la prima trasmissione. Parole belle. Come scintille nella pioggia, come luce radente sulle rovine di un tempio. Gli piaceva coniare e ripetere tra sé similitudini. Gli piacevano le parole. Suonavano.
Lo psicologo giacca di velluto voce del programma "Raccontalo a me" stava riordinando i suoi appunti. Dai diffusori usciva la sigla di chiusura.
Strato, ex guitar hero delle cantine, cuffie sulla testa e dita sui cursori del mixer, si girò verso Jocko: due minuti e gli avrebbe consegnato l'etere.
Jocko tirò fuori dalla borsa i suoi pensieri stampati in Courier. Gli piaceva quel carattere da mestiere di scrivere. E anche il proprio soprannome: equivaleva ad avere i gradi in un plotone di ex-ragazzi convinti di aver conquistato per primi la collina della musica che non piaceva agli altri, o meglio, che desideravano con tutto il cuore non piacesse agli altri. Stare dalla parte sbagliata, minoritaria, era sempre stato questo il loro imperativo; o forse solo il suo.
In sottofondo si stavano srotolando i punti esclamativi e interrogativi dei 30 secondi pubblicitari. Di lì a poco Strato avrebbero lanciato il conto alla rovescia attraverso il vetro che separava lo studio dalla regìa.
Tre, due, uno, pollice all’insù:
– Ben ritrovati sulle frequenze di Alternative Antenna. Come ogni martedì trascorrerete un po' di tempo con me, Jocko, all'ascolto di "Note a piè di pagina, le parole dette che la musica ti detta". Ma bando alle parole inutili, quelle importanti teniamocele per quando avremo ascoltato il primo brano. Spazio agli Stones allora, arriva lei, l'unica, l'inarrivabile, la sola che ci darà il rifugio che cerchiamo: Gimme shelter, da Let it Bleed, anno 1969.
Si allungò sulla sedia. Si mise a immaginarla. Non l'aveva mai vista. C'era la voce. La voce non è tutto, ma è tanto Poche cose eguagliano una bella voce femminile, sia che parli sia che canti, pensava. L'importante è che una voce non nera non si finga tale sbrodolando pentatoniche a vuoto. Le voci non nere le preferiva dritte, magari non proprio rettilinee come quelle delle cantanti da balera, ma comunque sincere, ubbidienti a un timbro morfologicamente diverso da quello africano.
Circa trenta secondi al termine del brano. Guardò Strato al di là del vetro, si schiarì la voce:
– "È lì che capisci veramente come andrà, quando all'inizio partono quei coretti, vento caldo che fa ondeggiare l'erba, non più verde ma tinta di morte, laggiù in Vietnam, prima che gli elicotteri, quando nel brano fa irruzione tutta la band, scendano a recuperare i corpi in mimetica straziati dalla demenza di chi siede nella stanza dei bottoni. È lì che ti accorgi che l'intro poteva essere suonato solo così. Poi resti in ascolto, facendoti investire dall'elettricità delle chitarre e dall'energia elementare dei tamburi di Charlie Watts. E non serve cercare di capire perché le voci, quella bianca e quella nera, maschio e femmina, sono così "dentro". Devono lottare per emergere, ma senza riuscirci, altrimenti si rompe l’incantesimo. Una canzone per chi vuole farsi di adrenalina e di speranza. Un brano contro la guerra."
– Bene, questo è quello che penso. E ora fatemi stare zitto, aprite bene i padiglioni auricolari a quella che arriva: si chiama Gioia Nera, “sono nera, ma”, cito il testo, “so ridere di me”. E io anche, aggiungo. Anno 2004. Sono i Prozac+ e qui viaggiano a 178 bpm. Vediamo se riuscite a stargli dietro.
Si sfilò le cuffie. Era stato oscuro? "Assieme alla persona che hai sempre voluto": troppo vago forse per farle intendere che si riferiva a lei. Ammesso che lo stesse ascoltando. Ma sì che lo stava ascoltando, la telefonata di lei, lì alla radio, subito dopo la trasmissione arrivava sempre. Si scambiavano impressioni su questo o quel brano. Era bello.
Una volta, sola quella prima volta la chiamata era arrivata durante il programma. Emozionante.
– "La chitarra, mentre sbrana Bach, ad ascoltarla bene ride. Ma è un riso amaro. Te lo fa capire il cantato, dipinto con note lunghe su un muro di saturazione valvolare che si sbreccia alla fine delle strofe e ritorna a erigersi nei ritornelli, dove il bronzo del "china", quel piatto sonoro concavo che sa di estremo oriente, vibra di un colpo in levare ogni due misure. Il basso e le chitarre ritmiche corrono insieme – mi viene in mente un tubo grigio scuro – mentre l'altra sei corde intesse, semplice e precisa, una trama armonica elaborata. È una macchina nera che sfreccia in una galleria di cui non si vede la fine, la luce. Non la puoi raggiungere, la puoi solo inseguire"... anch'io ti sto inseguendo. Il mio sogno è raggiungerti... siete d'accordo con me? Non importa, io la vedo così. Adesso però anche Lou Reed ha qualcosa da dirvi. Arriva Carolin says versione due, direttamente dai piedi del muro di Berlino. Era il 1973, l'album è, appunto, il celebratissimo Berlin.
Fuggiasco e inseguitore. Glucosio, roba da San Valentino. Un colpo fuori bersaglio. Eppure se lo sentiva. Sentiva che tra loro era stato lanciato un filo invisibile di affinità. Bastava solo dipanarlo e tenderlo.
– "Mi dispiace che i valorosi soldati di ventura Ainsley Dunbar alla batteria e Jack Bruce al basso restino nelle retrovie, ma qui a costruire la magia bastano due cose: un giro armonico che ti fa dimenticare di esistere e gli archi del mellotron, che ammantano di poesia una storia squallida. Solo una critica: il pianoforte, in un punto, solo in un punto, si avventura in un arpeggio un po' troppo lezioso. Ma è perdonato. È un brano straniante e struggente. Attenzione però, senza la voce, quella voce più parlata che cantata e intonata per un pelo, sarebbe solo un quadretto ben dipinto"... anche la tua di voce, la tua, vorrei sentire più spesso. Bene amici, che ne dite? Magari l'unica voce che non avreste voglia di sentire è quella di chi vi sta parlando in questo momento. Tranquilli, taccio, ma per poco, giusto il tempo di regalarvi tre minuti e qualcosa insieme al mio amico Paul. Lo chiamo amico perché lo ascolto da sempre, da quando capitanava i Jam. Per chi non lo sapesse sto parlando di Paul Weller: su Alternative Antenna con The changing man, da Stanley Road, anno 1995.
Al di là del vetro Strato stava agitando un foglio con scritto sopra qualcosa. Si alzò e si avvicinò. La frase a pennarello recitava: "Tutto ok?" Jocko rispose con un'espressione interrogativa. Poi scosse la testa fingendo di non capire.
Il messaggio stava passando. Forse.
Mentre il brano sfumava ebbe un'idea. Si sarebbe rivolto a lei chiamandola “Ruby Tuesday”. Avrebbe capito?
– "Quando un brano così apre un album, è chiaro che quell'album diventerà un classico. Qui affiora il ricordo dei sixties. Ho detto sixties non favolosi anni sessanta: le rotonde sul mare le lascio ad altri. Ci si cala nella memoria di un passato che per la buona musica è sempre un presente. Questa canzone suona oggi e suonerà domani. È il suono di un insieme perfetto, in cui il soul e il rock duellano per conquistare chi ascolta e concludono in parità, senza mai prevalere l'uno sull'altro. L'assolo di chitarra, semplice e nervoso, con una nota in più o una in meno avrebbe perso tutta la sua forza: il segreto è questo, ma lo conoscono solo i grandi. La batteria? Perfetta come sempre quella di Steve White, che qui sceglie la via dei rulli a colpi doppi, che a sentir bene ci stanno tutti"... e tu ci stai a farti vedere di persona, gentile e ispirata “Ruby Tuesday”, voce telefonica del mio martedì a Alternative Antenna? Pensaci, mentre ascolti la prossima. L'ho sentita la prima volta a quattordici anni, nel 1979.  Da allora mi ossessiona. Si chiama Making Plans for Nigel, loro sono gli XTC, da Drums and Wires. Sparatevi questo inizio di batteria, vale più di qualsiasi romanzo di formazione.
Il labiale di Strato, attraverso il vetro, diceva: "che cazzo stai facendo?"
Bene. Ora lei non avrebbe avuto dubbi.
Gli si materializzava davanti agli occhi una ragazza in solitudine. Era così, altrimenti non avrebbe mai ascoltato quella trasmissione da dinosauri.
– "Un overcraft. Poderoso ma leggero, che scivola agile sulla propria mole: la canzone degli XTC che abbiamo appena ascoltato mi ha sempre fatto immaginare questo. Su vinile, per la forza dell'analogico, ancora di più. Il pattern di batteria è di quelli che fanno storia, senza, sarebbe stata solo un'ottima canzone. Così è una pietra miliare. E la chitarra? La stessa frase ripetuta lungo tutta la strofa. Senza, sarebbe stata solo un'ottima canzone. Così è la canzone, con l'articolo determinativo scritto in neretto. E il basso? Preciso, semplice, inesorabile. Senza, sarebbe stata solo un'ottima canzone. Così è intelligenza. E la voce? Interpretata diversamente, anche solo gridata anziché geometrica e il risultato sarebbe stato di gran lunga inferiore. Senza, sarebbe stata solo un'ottima canzone. Così è un'opera definitiva"… senza di te, “Ruby Tuesday”, io non...
Non riuscì a continuare. Non sapeva bene cosa avrebbe voluto dire. 
Strato lo stava interrogando con lo sguardo.
– Bene gente, mi ero perso un momento nei miei pensieri, ma niente paura, si riparte e questa volta si arriva, perché il brano che ascolterete ora è l'ultimo dei sei in scaletta. Sono pochi? Pochi ma buoni rispondo io. Questa sera le danze si chiudono con i Devo. Satisfaction, signore e signori. Era il 1977, e la musica non sarebbe stata più la stessa. Io, scusate se infierisco, questi cinque pionieri con le tute gialle di Akron, Ohio, li ho visti dal vivo nel lontano 1980, poco più che bambino. Non eravate ancora nati? Peggio per voi.
Ci sarebbe voluto tanto a dire "voglio vederti, parlarti di persona e conoscerti"? Ci sarebbe voluto quel tanto in meno di timore di fare figure di merda che aveva sempre inchiodato i suoi slanci al muro delle occasioni perdute. Ultimo foglio. Questa volta, a fine lettura, avrebbe detto chiaro e tondo a “Ruby Tuesday” come stavano le cose.
Satisfaction era circa a metà. Jocko sentì un risuonare di nocche sul vetro. Il labiale di Strato diceva "telefono". Gli rispose con un cenno di assenso.
– "Pronto?"
– "Pronto, Jocko? Pronto?"
Era lei. Prima del previsto.
– "Ciao... che sorpresa...
– "Ho qualche parola su questo brano... posso?"
– "Eccome, resta lì, ti metto in diretta."
– Dunque, un piccolo cambiamento di programma, abbiamo in linea un'amica, forse gli ascoltatori più fedeli la riconosceranno perché già una volta ho avuto il piacere di darle voce. Vuole dircene un paio su Satisfaction.  Pronta? A te... “Ruby Tuesday”.
La voce, calda, leggermente ruvida, partì regolare, ma non artificiale. Non stava leggendo.
– "Nessuno, nessuno al mondo avrebbe potuto progettare un pattern di batteria simile, solo loro. Nessuno sarebbe riuscito a trasformare il giro di basso in una molla che prima si comprime e poi si dilata. Nessuno avrebbe potuto ordire delle trame di chitarra così follemente ante litteram. Nessuno avrebbe mai pensato di trasformare quel "baby, baby" in una raffica canora che sai quando inizia ma non quando finisce. Nessuno, ripeto, nessuno avrebbe potuto scardinare il magico meccanismo di una hit rivoluzionaria tramutandola nel manifesto di un'avanguardia. E non facciamo finta di non sapere che alla regia c'è mister Brian Eno. Il brano dei Devo sta all'originale degli Stones come il bebop sta allo swing. Ma lo sappiamo tutti che senza l'uno l'altro non avrebbe potuto esserci. Viva i Devo allora, e un urrà ai Rolling Stones. Da... dalla vostra “Ruby Tuesday” è tutto."
Avrebbe potuto scriverlo lui, proprio così, identico, pensò Jocko nell'attimo di silenzio che seguì prima di riprendere la parola. Era la sua anima gemella. E aveva accettato lo pseudonimo “Ruby Tuesday”.  
 – Questo è dire qualcosa sulla musica, amici.
Mentre parlava prese un appunto: "ultima chiamata".
– Questo è aver capito l'immensità che si nasconde dietro una canzone. È inutile che legga anche quello che avevo scritto io. Questo basta e avanza. Grazie ancora “Ruby Tuesday”, grazie per aver parlato in diretta, come la prima volta... e non dimenticare che ci risentiremo appena avrò mandato la sigla, come sempre. Non volevi che gli ascoltatori lo sapessero? Peccato, ormai l'ho detto, spero che non me ne vorrai. Ok, per quanto riguarda voi, miei fedelissimi, l'appuntamento è martedì prossimo. Naturalmente sempre qui, a Alternative Antenna. Ci risentiamo fra una settimana. Via con la sigla, vi lascio come al solito nelle mani dei Church. Godetevi le stelle della nottata che arriva con loro. Un arrivederci, anzi, a risentirci, da Jocko.
Non era ancora partito il cantato di Under the Milky Way che già era entrato in regìa. Questa volta l'avrebbe battuta sul tempo.
– Strato? Che numero bisogna fare per risalire all'ultima chiamata ricevuta?
– Il 182 mi pare.
– Passami il telefono.
La voce pre-registrata iniziò a recitare l’informazione.
– Adesso gioco d'anticipo, – fece Jocko a Strato, che lo guardava perplesso.
– "Pronto?"
– "Ciao, sono io... Jocko... il conduttore del programma radio."
– "..."
– "Di solito chiami tu dopo la trasmissione, ma stasera ho deciso che... forse perché poco fa hai chiamato tu, allora ho pensato: adesso la chiamo io. Ho pensato che... insomma, sono curioso di sapere qualcosa di più su di te… “Ruby Tuesday”. Anzi, per prima cosa vorrei sapere come ti chiami veramente."
– "..."
– "Avresti chiamato a fine trasmissione anche stasera, vero? Senti, io e te di cose sulla musica ce ne siamo già raccontate un po'... che ne diresti di continuare a farlo togliendo di mezzo il telefono? Mi piacerebbe incontrarti."
Non si accorse di essere rimasto a parlare col nulla, a rivolgersi a un vuoto riempito di immaginazione, come faceva spesso, come in fin dei conti faceva anche lì alla radio.
I can't get no satisfaction.
– Lucy? Chi era al telefono? Ti serve qualcosa?
La voce di sua madre in termini di registro vocale si sarebbe potuta definire da contralto. Proveniva dal soggiorno assieme ai suoni del televisore. Li distingueva perfettamente, uno per uno, frequenza per frequenza.
Poi il suo suono preferito: le unghie sul legno, sempre più vicine.
Eccola. Affondare le dita nel suo pelo, il contatto con la vita. È comunque uno spettacolo la vita.
Il colore della sua Ella, la guida che le permetteva di muoversi sicura, Lucy lo immaginava come quello di quel piccolo di pastore tedesco che aveva visto da bambina in braccio alla madre di una sua compagna di classe all'uscita da scuola. Quando il mondo era ancora fatto di luce. Prima che quell'orco, quel male, glielo spegnesse.
Lo ricordava bello quel cane. Come tutti gli animali. A chi diceva che vedono in bianco e nero non aveva mai creduto. 


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