Racconto di Paolo Parigi
A minuti
sarebbe arrivato il momento di andare in onda. Brani scelti da lui. Tra uno e
l’altro parole, tante, forse troppe. Scritte e lette da lui. Al martedì sera
dai microfoni di Alternative Antenna.
Jocko,
abbreviazione di Jocko Homo, lo faceva tutte le settimane. Questo martedì
però nelle sue parole ci sarebbe stato qualcosa di più: un messaggio rivolto a
lei. Da spedirle in diretta. Si erano conosciuti lì. Pressapoco. Una telefonata
di lei arrivata in regia, condivisa da lui con gli ascoltatori, un commento on
air, su un brano appena concluso. Era successo durante la prima trasmissione.
Parole belle. Come scintille nella pioggia, come luce radente sulle rovine di
un tempio. Gli piaceva coniare e ripetere tra sé similitudini. Gli piacevano le
parole. Suonavano.
Lo psicologo giacca di velluto voce del programma
"Raccontalo a me" stava riordinando i suoi appunti. Dai diffusori
usciva la sigla di chiusura.
Strato, ex guitar hero delle cantine, cuffie sulla
testa e dita sui cursori del mixer, si girò verso Jocko: due minuti e gli
avrebbe consegnato l'etere.
Jocko
tirò fuori dalla borsa i suoi pensieri stampati in Courier. Gli piaceva quel
carattere da mestiere di scrivere. E anche il proprio soprannome: equivaleva ad
avere i gradi in un plotone di ex-ragazzi convinti di aver conquistato per
primi la collina della musica che non piaceva agli altri, o meglio, che desideravano con tutto il cuore non piacesse agli altri. Stare dalla parte
sbagliata, minoritaria, era sempre stato questo il loro imperativo; o forse
solo il suo.
In sottofondo si stavano srotolando i punti
esclamativi e interrogativi dei 30 secondi pubblicitari. Di lì a poco Strato
avrebbero lanciato il conto alla rovescia attraverso il vetro che separava lo
studio dalla regìa.
Tre, due, uno, pollice all’insù:
– Ben ritrovati sulle frequenze di Alternative
Antenna. Come ogni martedì trascorrerete un po' di tempo con me, Jocko,
all'ascolto di "Note a piè di pagina, le parole dette che la musica ti
detta". Ma bando alle parole inutili, quelle importanti teniamocele per
quando avremo ascoltato il primo brano. Spazio agli Stones allora, arriva lei,
l'unica, l'inarrivabile, la sola che ci darà il rifugio che cerchiamo: Gimme
shelter, da Let it Bleed, anno 1969.
Si
allungò sulla sedia. Si mise a immaginarla. Non l'aveva mai vista. C'era la
voce. La voce non è tutto, ma è tanto Poche cose eguagliano una bella voce
femminile, sia che parli sia che canti, pensava. L'importante è che una voce
non nera non si finga tale sbrodolando pentatoniche a vuoto. Le voci non nere
le preferiva dritte, magari non proprio rettilinee come quelle delle cantanti
da balera, ma comunque sincere, ubbidienti a un timbro morfologicamente diverso
da quello africano.
Circa trenta secondi al termine del brano. Guardò
Strato al di là del vetro, si schiarì la voce:
– "È lì che capisci veramente come andrà,
quando all'inizio partono quei coretti, vento caldo che fa ondeggiare l'erba,
non più verde ma tinta di morte, laggiù in Vietnam, prima che gli elicotteri,
quando nel brano fa irruzione tutta la band, scendano a recuperare i corpi in
mimetica straziati dalla demenza di chi siede nella stanza dei bottoni. È lì
che ti accorgi che l'intro poteva essere suonato solo così. Poi resti in
ascolto, facendoti investire dall'elettricità delle chitarre e dall'energia
elementare dei tamburi di Charlie Watts. E non serve cercare di capire perché
le voci, quella bianca e quella nera, maschio e femmina, sono così
"dentro". Devono lottare per emergere, ma senza riuscirci, altrimenti
si rompe l’incantesimo. Una canzone per chi vuole farsi di adrenalina e di
speranza. Un brano contro la guerra."
– Bene, questo è quello che penso. E ora fatemi
stare zitto, aprite bene i padiglioni auricolari a quella che arriva: si chiama
Gioia Nera, “sono nera, ma”, cito il testo, “so ridere di me”. E io
anche, aggiungo. Anno 2004. Sono i Prozac+ e qui viaggiano a 178 bpm. Vediamo
se riuscite a stargli dietro.
Si sfilò le cuffie. Era stato oscuro? "Assieme
alla persona che hai sempre voluto": troppo vago forse per farle intendere
che si riferiva a lei. Ammesso che lo stesse ascoltando. Ma sì che lo stava
ascoltando, la telefonata di lei, lì alla radio, subito dopo la
trasmissione arrivava sempre. Si scambiavano impressioni su questo o quel
brano. Era bello.
Una volta, sola quella prima volta la chiamata era
arrivata durante il programma. Emozionante.
– "La chitarra, mentre sbrana Bach, ad
ascoltarla bene ride. Ma è un riso amaro. Te lo fa capire il cantato, dipinto
con note lunghe su un muro di saturazione valvolare che si sbreccia alla fine
delle strofe e ritorna a erigersi nei ritornelli, dove il bronzo del
"china", quel piatto sonoro concavo che sa di estremo oriente, vibra
di un colpo in levare ogni due misure. Il basso e le chitarre ritmiche corrono
insieme – mi viene in mente un tubo grigio scuro – mentre l'altra sei corde
intesse, semplice e precisa, una trama armonica elaborata. È una macchina nera
che sfreccia in una galleria di cui non si vede la fine, la luce. Non la puoi
raggiungere, la puoi solo inseguire"... anch'io ti sto inseguendo. Il mio
sogno è raggiungerti... siete d'accordo con me? Non importa, io la vedo così.
Adesso però anche Lou Reed ha qualcosa da dirvi. Arriva Carolin says
versione due, direttamente dai piedi del muro di Berlino. Era il 1973, l'album
è, appunto, il celebratissimo Berlin.
Fuggiasco e inseguitore. Glucosio, roba da San
Valentino. Un colpo fuori bersaglio. Eppure se lo sentiva. Sentiva che tra loro
era stato lanciato un filo invisibile di affinità. Bastava solo dipanarlo e
tenderlo.
– "Mi dispiace che i valorosi soldati di
ventura Ainsley Dunbar alla batteria e Jack Bruce al basso restino nelle
retrovie, ma qui a costruire la magia bastano due cose: un giro armonico che ti
fa dimenticare di esistere e gli archi del mellotron, che ammantano di poesia
una storia squallida. Solo una critica: il pianoforte, in un punto, solo in un
punto, si avventura in un arpeggio un po' troppo lezioso. Ma è perdonato. È un
brano straniante e struggente. Attenzione però, senza la voce, quella voce più
parlata che cantata e intonata per un pelo, sarebbe solo un quadretto ben
dipinto"... anche la tua di voce, la tua, vorrei sentire più spesso. Bene
amici, che ne dite? Magari l'unica voce che non avreste voglia di sentire è
quella di chi vi sta parlando in questo momento. Tranquilli, taccio, ma per
poco, giusto il tempo di regalarvi tre minuti e qualcosa insieme al mio amico
Paul. Lo chiamo amico perché lo ascolto da sempre, da quando capitanava i Jam.
Per chi non lo sapesse sto parlando di Paul Weller: su Alternative Antenna con The
changing man, da Stanley Road, anno 1995.
Al di là del vetro Strato stava agitando un foglio
con scritto sopra qualcosa. Si alzò e si avvicinò. La frase a pennarello
recitava: "Tutto ok?" Jocko rispose con un'espressione interrogativa.
Poi scosse la testa fingendo di non capire.
Il messaggio stava passando. Forse.
Mentre il
brano sfumava ebbe un'idea. Si sarebbe rivolto a lei chiamandola “Ruby Tuesday”.
Avrebbe capito?
– "Quando un brano così apre un album, è
chiaro che quell'album diventerà un classico. Qui affiora il ricordo dei
sixties. Ho detto sixties non favolosi anni sessanta: le rotonde sul mare le
lascio ad altri. Ci si cala nella memoria di un passato che per la buona musica
è sempre un presente. Questa canzone suona oggi e suonerà domani. È il suono di
un insieme perfetto, in cui il soul e il rock duellano per conquistare chi
ascolta e concludono in parità, senza mai prevalere l'uno sull'altro. L'assolo
di chitarra, semplice e nervoso, con una nota in più o una in meno avrebbe
perso tutta la sua forza: il segreto è questo, ma lo conoscono solo i grandi.
La batteria? Perfetta come sempre quella di Steve White, che qui sceglie la via
dei rulli a colpi doppi, che a sentir bene ci stanno tutti"... e tu ci
stai a farti vedere di persona, gentile e ispirata “Ruby Tuesday”, voce
telefonica del mio martedì a Alternative Antenna? Pensaci, mentre ascolti la
prossima. L'ho sentita la prima volta a quattordici anni, nel 1979. Da
allora mi ossessiona. Si chiama Making Plans for Nigel, loro sono gli
XTC, da Drums and Wires. Sparatevi questo inizio di batteria, vale più
di qualsiasi romanzo di formazione.
Il labiale di Strato, attraverso il vetro, diceva:
"che cazzo stai facendo?"
Bene. Ora lei non avrebbe avuto dubbi.
Gli si materializzava davanti agli occhi una
ragazza in solitudine. Era così, altrimenti non avrebbe mai ascoltato quella
trasmissione da dinosauri.
– "Un overcraft. Poderoso ma leggero, che
scivola agile sulla propria mole: la canzone degli XTC che abbiamo appena
ascoltato mi ha sempre fatto immaginare questo. Su vinile, per la forza
dell'analogico, ancora di più. Il pattern di batteria è di quelli che fanno
storia, senza, sarebbe stata solo un'ottima canzone. Così è una pietra miliare.
E la chitarra? La stessa frase ripetuta lungo tutta la strofa. Senza, sarebbe
stata solo un'ottima canzone. Così è la canzone, con l'articolo determinativo
scritto in neretto. E il basso? Preciso, semplice, inesorabile. Senza, sarebbe
stata solo un'ottima canzone. Così è intelligenza. E la voce? Interpretata
diversamente, anche solo gridata anziché geometrica e il risultato sarebbe
stato di gran lunga inferiore. Senza, sarebbe stata solo un'ottima canzone.
Così è un'opera definitiva"… senza di te, “Ruby Tuesday”, io non...
Non riuscì a continuare. Non sapeva bene cosa
avrebbe voluto dire.
Strato lo stava interrogando con lo sguardo.
– Bene gente, mi ero perso un momento nei miei
pensieri, ma niente paura, si riparte e questa volta si arriva, perché il brano
che ascolterete ora è l'ultimo dei sei in scaletta. Sono pochi? Pochi ma buoni
rispondo io. Questa sera le danze si chiudono con i Devo. Satisfaction,
signore e signori. Era il 1977, e la musica non sarebbe stata più la stessa.
Io, scusate se infierisco, questi cinque pionieri con le tute gialle di Akron,
Ohio, li ho visti dal vivo nel lontano 1980, poco più che bambino. Non eravate
ancora nati? Peggio per voi.
Ci sarebbe voluto tanto a dire "voglio
vederti, parlarti di persona e conoscerti"? Ci sarebbe voluto quel tanto
in meno di timore di fare figure di merda che aveva sempre inchiodato i suoi
slanci al muro delle occasioni perdute. Ultimo foglio. Questa volta, a fine
lettura, avrebbe detto chiaro e tondo a “Ruby Tuesday” come stavano le cose.
Satisfaction era circa a metà. Jocko sentì un
risuonare di nocche sul vetro. Il labiale di Strato diceva
"telefono". Gli rispose con un cenno di assenso.
– "Pronto?"
– "Pronto, Jocko? Pronto?"
Era lei. Prima del previsto.
– "Ciao... che sorpresa...
– "Ho qualche parola su questo brano...
posso?"
– "Eccome, resta lì, ti metto in
diretta."
– Dunque,
un piccolo cambiamento di programma, abbiamo in linea un'amica, forse gli
ascoltatori più fedeli la riconosceranno perché già una volta ho avuto il
piacere di darle voce. Vuole dircene un paio su Satisfaction.
Pronta? A te... “Ruby Tuesday”.
La voce, calda, leggermente ruvida, partì regolare,
ma non artificiale. Non stava leggendo.
– "Nessuno, nessuno al mondo avrebbe potuto
progettare un pattern di batteria simile, solo loro. Nessuno sarebbe riuscito a
trasformare il giro di basso in una molla che prima si comprime e poi si
dilata. Nessuno avrebbe potuto ordire delle trame di chitarra così follemente
ante litteram. Nessuno avrebbe mai pensato di trasformare quel "baby,
baby" in una raffica canora che sai quando inizia ma non quando finisce.
Nessuno, ripeto, nessuno avrebbe potuto scardinare il magico meccanismo di una
hit rivoluzionaria tramutandola nel manifesto di un'avanguardia. E non facciamo
finta di non sapere che alla regia c'è mister Brian Eno. Il brano dei Devo sta
all'originale degli Stones come il bebop sta allo swing. Ma lo sappiamo tutti
che senza l'uno l'altro non avrebbe potuto esserci. Viva i Devo allora, e un
urrà ai Rolling Stones. Da... dalla vostra “Ruby Tuesday” è tutto."
Avrebbe
potuto scriverlo lui, proprio così, identico, pensò Jocko nell'attimo di
silenzio che seguì prima di riprendere la parola. Era la sua anima gemella. E
aveva accettato lo pseudonimo “Ruby Tuesday”.
– Questo è dire qualcosa sulla musica, amici.
Mentre parlava prese un appunto: "ultima
chiamata".
– Questo è aver capito l'immensità che si nasconde
dietro una canzone. È inutile che legga anche quello che avevo scritto io.
Questo basta e avanza. Grazie ancora “Ruby Tuesday”, grazie per aver parlato in
diretta, come la prima volta... e non dimenticare che ci risentiremo appena
avrò mandato la sigla, come sempre. Non volevi che gli ascoltatori lo
sapessero? Peccato, ormai l'ho detto, spero che non me ne vorrai. Ok, per
quanto riguarda voi, miei fedelissimi, l'appuntamento è martedì prossimo.
Naturalmente sempre qui, a Alternative Antenna. Ci risentiamo fra una
settimana. Via con la sigla, vi lascio come al solito nelle mani dei Church.
Godetevi le stelle della nottata che arriva con loro. Un arrivederci, anzi, a
risentirci, da Jocko.
Non era
ancora partito il cantato di Under the Milky Way che già era entrato in
regìa. Questa volta l'avrebbe battuta sul tempo.
– Strato? Che numero bisogna fare per risalire
all'ultima chiamata ricevuta?
– Il 182 mi pare.
– Passami il telefono.
La voce
pre-registrata iniziò a recitare l’informazione.
– Adesso gioco d'anticipo, – fece Jocko a Strato,
che lo guardava perplesso.
–
"Pronto?"
– "Ciao, sono io... Jocko... il conduttore del
programma radio."
– "..."
– "Di solito chiami tu dopo la trasmissione,
ma stasera ho deciso che... forse perché poco fa hai chiamato tu, allora ho
pensato: adesso la chiamo io. Ho pensato che... insomma, sono curioso di sapere
qualcosa di più su di te… “Ruby Tuesday”. Anzi, per prima cosa vorrei sapere
come ti chiami veramente."
– "..."
– "Avresti chiamato a fine trasmissione anche
stasera, vero? Senti, io e te di cose sulla musica ce ne siamo già raccontate
un po'... che ne diresti di continuare a farlo togliendo di mezzo il telefono?
Mi piacerebbe incontrarti."
Non si
accorse di essere rimasto a parlare col nulla, a rivolgersi a un vuoto riempito
di immaginazione, come faceva spesso, come in fin dei conti faceva anche lì
alla radio.
I can't get no satisfaction.
– Lucy?
Chi era al telefono? Ti serve qualcosa?
La voce di sua madre in termini di registro vocale
si sarebbe potuta definire da contralto. Proveniva dal soggiorno assieme ai suoni
del televisore. Li distingueva perfettamente, uno per uno, frequenza per
frequenza.
Poi il suo suono preferito: le unghie sul legno,
sempre più vicine.
Eccola. Affondare le dita nel suo pelo, il contatto
con la vita. È comunque uno spettacolo la vita.
Il colore della sua Ella, la guida che le
permetteva di muoversi sicura, Lucy lo immaginava come quello di quel piccolo
di pastore tedesco che aveva visto da bambina in braccio alla madre di una sua
compagna di classe all'uscita da scuola. Quando il mondo era ancora fatto di
luce. Prima che quell'orco, quel male, glielo spegnesse.
Lo ricordava bello quel cane. Come tutti gli
animali. A chi diceva che vedono in bianco e nero non aveva mai creduto.
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